Tempo di lettura stimato: 10 minuti
Stampa questa storia
Il 25 luglio 1943 segna una svolta nella storia italiana contemporanea. La sfiducia e l’arresto di Mussolini provocano il crollo del regime fascista e risvegliano gli oppositori politici. Dopo un ventennio vissuto tra silenzi e attività clandestine, qualcuno trova il coraggio di uscire allo scoperto. Attrarre l’attenzione e il consenso delle masse, ormai assuefatte alla retorica del regime, non è affatto semplice. Che fare? In varie parti d’Italia fa capolino la stessa idea: perché non tentare una protesta contro la guerra? Molte persone non ne possono più di “tirare la cinghia”, temere gli allarmi e attendere notizie dai propri cari al fronte. Tra il 26 e il 27 luglio la rivendicazione della pace stuzzica migliaia di persone in tutto il Paese.
Alzare la voce contro la guerra
Il governo di Pietro Badoglio s’insedia dunque in un clima di notevole fermento. Le industrie della produzione bellica danno lavoro a migliaia di donne e di uomini esentati dal fronte, ma il razionamento alimentare e la paura delle incursioni aeree fanno aumentare ogni giorno di più il malessere e il risentimento.
Quando Mussolini esce di scena, si aprono tuttavia speranze di cambiamento. In vari luoghi d’Italia prende forma l’idea di manifestare contro la guerra. Può sembrare paradossale, ma a mobilitarsi per primi sono soprattutto i lavoratori delle fabbriche militarizzate e tra di loro spiccano le operaie. Se il conflitto finisse, perderebbero il lavoro; se proseguisse, però, riuscirebbero a sopravvivere? Dilemmi come questo impongono quasi sempre scelte radicali. Così, nell’Emilia dei “quarantacinque giorni” badogliani, sono in tanti a decidere di rischiare per cercare la pace.
La reazione del governo
Resta però un dubbio: dopo l’arresto di Mussolini, che cosa rischia chi sceglie di manifestare contro la guerra? All’indomani del 25 luglio le illusioni di un cambiamento radicale durano poco. A metterle in fuga ci pensa il nuovo governo. Già il 26 luglio il generale Mario Roatta, fiero sostenitore del franchismo nella guerra civile spagnola e responsabile di crimini di guerra nei Balcani, fa uscire una circolare che parla chiaro.
Qualunque perturbamento dell’ordine pubblico anche minimo e di qualsiasi tinta costituisce tradimento; poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue; i reparti… procedano in formazione da combattimento e si apra il fuoco a distanza anche con mortai ed artiglierie senza preavvisi di sorta, come procedessero contro truppe nemiche; non è ammesso il tiro in aria, si tiri sempre a colpire come in combattimento… chiunque compia atti di violenza e di ribellione… venga immediatamente passato per le armi.
Tuttavia il desiderio di manifestare contro la guerra non si placa. Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto migliaia di persone scioperano e formano cortei in tutta Italia. In vari casi l’esercito e la forza pubblica applicano alla lettera gli ordini di Roatta. Nei primi giorni delle proteste rimangono uccisi 83 manifestanti, mentre i feriti sono 308 e gli arrestati 1.500. Il bilancio continua ad aggravarsi fino all’8 settembre: all’annuncio dell’armistizio i morti nelle manifestazioni sono 96, i feriti 552 e gli arrestati 2.341.
Tra le tante vicende di lotta contro la guerra nei “quarantacinque giorni” badogliani, due sono particolarmente adatte a raccontare la mobilitazione operaia “dal basso”. Si tratta degli scioperi organizzati allo stabilimento della Società italiana prodotti esplodenti (SIPE) di Spilamberto e alle Officine meccaniche italiane S.A. (OMI) di Reggio Emilia.
La manifestazione alla SIPE di Spilamberto
Il 26 luglio il gruppo dirigente modenese del Partito comunista d’Italia sollecita l’organizzazione di uno sciopero nello stabilimento della SIPE di Spilamberto. All’organizzazione sono chiamati l’operaio addetto alle riparazioni speciali Iris Malagoli e il falegname Samuele Simonini. La missione è difficile, poiché il Codice penale militare di guerra impone alle maestranze la disciplina di fabbrica. L’ultimo sciopero, avvenuto nell’estate del 1941, è costato alle organizzatrici il licenziamento e il confino.
Malagoli e Simonini cercano la collaborazione di altri antifascisti come Renato Manzini, Gilberto Galli e il repubblicano Edoardo Graziosi, un ex squadrista deluso dal “matrimonio di convenienza” tra Mussolini e le forze reazionarie. Gli organizzatori stabiliscono che alla fine dello sciopero si terrà un comizio in paese per sfruttare l’abilità retorica di Graziosi.
Nel frattempo il contadino comunista Egidio Popoli porta a Spilamberto volantini stampati a Modena, che incitano il popolo a chiedere la pace e a battersi per un nuovo ordine sociale. Tuttavia il governo Badoglio è determinato a mantenere l’ordine pubblico con la forza. I conservatori vogliono preservare le strutture del fascismo senza Mussolini. Negli ordini trasmessi ai reparti militari le proteste di piazza vengono equiparate alle azioni dei nemici in guerra.
Lo sciopero contro la guerra
La mattina del 28 luglio un plotone dell’esercito presidia la via tra la SIPE e il centro di Spilamberto. I lavoratori di turno nella parte bassa dello stabilimento entrano in sciopero subito dopo aver varcato i cancelli. I manifestanti estraggono cartelli che inneggiano alla fine del conflitto, preparati nel reparto di falegnameria, poi formano il corteo e imboccano la via per Spilamberto.
Quando vede avanzare gli scioperanti, l’ufficiale al comando del plotone ordina ai soldati di sparare una raffica in aria, poi li incita a far fuoco ad altezza uomo. Nel frattempo altri militari sganciano alcune bombe a mano lungo la strada verso Vignola per impedire ai lavoratori impegnati nella parte alta della SIPE di unirsi al corteo. Tuttavia i militari non eseguono alla lettera gli ordini. Nessun colpo raggiunge i manifestanti, che fanno in tempo a sciogliersi per la paura di venire falciati. Il comizio di Edoardo Graziosi non ha dunque luogo per il mancato arrivo del corteo a Spilamberto.
Il ritorno alla “normalità”
Quando si ristabilisce la tranquillità, qualcuno riprende subito il lavoro in fabbrica. Altri invece tornano a casa, poiché temono la reazione della proprietà. I fascisti restano nascosti o in disparte, ma le istituzioni cominciano a minacciare i promotori dello sciopero.
Fu in quelle giornate, che io provai per la prima volta paura dei Carabinieri. Ricordo ancora che dalla casa in cui abitavo, vedevo passare i Carabinieri che andavano ad arrestare Manzini Ettore ed altri partecipanti allo sciopero. Alla sera, dopo lo sciopero, cominciarono gli arresti, e io in casa, assieme ad Odorici, a Sirotti e ad altri, temevo che fosse giunto anche per noi il momento dell’arresto. Invece non fu, perché eravamo ancora dei ragazzi, e non credo che sapessero che noi ci interessavamo allo sciopero.
(Testimonianza di Liliano Famigli).
All’indomani dello sciopero le forze di polizia non riescono a catturare Iris Malagoli e Samuele Simonini, abituati a vivere in clandestinità. Proprio in quei giorni riprendono inoltre vigore le predicazioni umanitarie di don Attilio Bondi e le energie antifasciste del socialista romano Calcedonio Alfredo Peruzza, trasferitosi a Spilamberto dopo aver perso il posto di lavoro nelle Ferrovie dello Stato per la mancata adesione al Partito nazionale fascista.
Vengono invece arrestati e condotti alle carceri di Sant’Eufemia Edoardo Graziosi, gli operai comunisti Armando Marchesini, Ivo Cavedoni e Luigi Roncaglia, l’operaia antifascista Bruna Casini e gli impiegati antifascisti Renato Manzini e Gilberto Galli. Nelle settimane successive i prigionieri sono deferiti al Tribunale Militare di Bologna e trasferiti nel carcere di San Giovanni in Monte.
Lo sciopero alle OMI Reggiane
Mentre il primo turno della SIPE si prepara a scendere in sciopero, anche la più importante fabbrica bellica dell’Emilia-Romagna vive ore di concitazione. Nella fase di picco della produzione bellica alle OMI Reggiane lavorano oltre 10.000 persone. Le condizioni di vita nei quartieri operai sono tuttavia difficili. Le famiglie vivono in una o al massimo in poche stanze, condividendo con i vicini i pochi “servizi” a disposizione. A complicare le cose si aggiungono il razionamento alimentare e gli allarmi aerei. Insomma, si tira la cinghia e si freme per il suono della sirena.
Quando si diffonde la notizia dell’arresto di Mussolini, tra i lavoratori cominciano ad alzarsi voci contro la guerra. Gli antifascisti comprendono che quel rifiuto del conflitto contiene un potenziale sovversivo. Bisogna trasformare la voglia di pace in un desiderio di farla finita con il regime. Già, ma come fare? Il Partito comunista d’Italia ha da tempo inserito un’organizzazione clandestina all’interno della fabbrica, ma i disagi e i pericoli della clandestinità non consentono ai militanti di rivolgersi in breve tempo a tutto il personale…
In certi momenti storici, però, le persone capiscono di condividere gli stessi orizzonti e agiscono spontaneamente, senza aver bisogno di un’organizzazione troppo capillare. Così il mattino del 28 luglio le donne e gli uomini di turno alle Reggiane vedono che alcuni operai e tecnici stanno per uscire dalla fabbrica. Vogliono raggiungere il centro della città e sfilare per chiedere la pace. Allora tanti altri lavoratori cominciano uno sciopero contro la guerra e si uniscono ai leader del corteo.
La tragedia
A quel punto accade qualcosa che è difficile da ricostruire nel dettaglio. Alle Reggiane in quel giorno, infatti, non ci sono soltanto i lavoratori, tutti disarmati. La proprietà ha schierato diverse guardie giurate, mentre all’esterno si trova un plotone di bersaglieri in servizio d’ordine pubblico.
La concitazione sale e, probabilmente, le guardie sparano alcuni colpi all’interno della fabbrica. A quel punto i bersaglieri temono di essere aggrediti dai manifestanti e aprono il fuoco. Nella prima fila del corteo restano uccisi nove lavoratori: Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Eugenio Fava, Nello Ferretti, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari, Domenica Secchi e Angelo Tanzi. Anche altri manifestanti restano feriti e il corteo si scioglie nel marasma degli spari. Tuttavia il giorno successivo diversi lavoratori tornano a scioperare. Dopo i fatti accaduti tra il 25 e il 28 luglio non è più possibile ristabilire la normalità dei primi tre anni di guerra.
Venti mesi di lotta… contro la guerra
Gli scioperi di fine luglio rappresentano il culmine della speranza accesa dall’arresto di Mussolini. Tuttavia le forze antifasciste non sono ancora sufficientemente organizzate per innescare un’insurrezione generale. La repressione messa in atto dall’esercito e dalla forza pubblica contribuisce inoltre a stroncare l’idea di alzare la voce contro la guerra.
L’impegno militare dell’Italia al fianco della Germania nazista proseguirà fino al 3 settembre 1943, quando il governo di Pietro Badoglio firmerà l’armistizio con gli Alleati. L’annuncio dell’intesa arriverà soltanto cinque giorni dopo. Proprio nella notte tra l’8 e il 9 settembre i nazisti occuperanno gran parte della penisola. A metà mese libereranno Mussolini, lo incaricheranno di fondare la Repubblica sociale italiana e daranno il via a venti mesi di guerra totale.
Di lì a poco parecchi giovani si sentiranno chiamare alle armi dai fascisti e si troveranno davanti a una scelta. Qualcuno opterà per il cibo e lo stipendio della RSI, sposando la visione dei fascismi. Altri rifiuteranno l’arruolamento e si nasconderanno. I più determinati e i più disperati di loro cominceranno una singolare lotta contro la guerra, oppure si batteranno per cambiare radicalmente le cose. Saranno gli uomini della Resistenza. Si batteranno accanto a tante donne e, soprattutto nelle pianure emiliane, troveranno l’appoggio dei civili. Diversi di loro terranno duro fino a quando arriverà la primavera della Liberazione. Solo allora, e a fatica, potranno conoscere la pace.
Per saperne di più…
Daniel Degli Esposti ha raccontato lo sciopero del 28 luglio 1943 alla SIPE nel saggio storico Lottare per scegliere. Antifascismo, Resistenza e ricostruzione a Spilamberto. Qui puoi trovare informazioni sul libro e su dove reperirlo.
Per approfondire il ruolo delle OMI Reggiane nelle guerre del Novecento italiano e reggiano, ti segnalo invece questo contributo di Michele Bellelli.
Per ricevere aggiornamenti su tutte le mie iniziative e su quelle di Paola Gemelli, è possibile iscriversi alla nostra Newsletter settimanale, in questa pagina.
28 Luglio 2019 alle 10:16
Grazie davvero. Tutto materiale che utilizzeró a scuola
28 Luglio 2019 alle 10:49
Grazie a te, Maurizio. Mi fa piacere che i nostri contenuti siano di stimolo per voi docenti (e anche per gli studenti). Paola e io siamo convinti che la scuola sia un obiettivo imprescindibile per chi vuole fare davvero Public History, ovvero portare la storia nella società.