Il 29 ottobre 1929 passa alla storia come il “martedì nero” e come l’innesco definitivo della Grande Depressione. In quel giorno la borsa di Wall Street chiude con una perdita di circa 10 miliardi di dollari. È un colpo molto duro per l’economia statunitense, anche perché arriva a cinque giorni dal “giovedì nero”. Il 24 ottobre i principali titoli azionari sulla piazza newyorkese avevano infatti già perso la metà del loro valore.
Comincia così una crisi economica che avrà un impatto devastante sugli Stati Uniti, ma anche sulle potenze europee e sulle loro colonie. Il mondo di fine anni Venti è infatti strettamente interconnesso e diverse economie europee sono legate al sistema americano. Le conseguenze della Grande Depressione si proiettano dunque in tutto il mondo, inasprendo le tensioni sociali e favorendo l’ascesa di movimenti politici nazionalisti.
Come si arriva a quel crollo così repentino e drammatico? E come si può uscire da un tracollo economico talmente profondo da ricevere l’appellativo di “Grande Depressione”?
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I “ruggenti anni Venti”
Nei “ruggenti anni Venti” gli Stati Uniti sviluppano una società consumistica. Le famiglie acquistano elettrodomestici e automobili, mentre le società immobiliari scommettono sullo sviluppo edilizio. Entrambi i fenomeni sono favoriti da un sistema creditizio molto vantaggioso: la fiducia nel progresso economico induce le banche a concedere prestiti con larghezza, anche di fronte a situazioni poco garantite.
Tra i cittadini statunitensi si diffonde dunque uno stile di vita superiore alle reali possibilità di ciascuno. Il benessere sembra crescere a un ritmo mai conosciuto in precedenza, eppure le basi del decollo sono tutt’altro che solide e le disuguaglianze sociali rimangono in gran parte irrisolte.
La crisi di Wall Street
I problemi emergono di colpo nell’autunno del 1929, quando i finanziatori cominciano a temere per la natura speculativa di alcuni prestiti. La fiducia nel mercato si incrina e giovedì 24 ottobre 1929 la borsa di Wall Street vive una giornata tremenda. I principali titoli perdono circa il 50% del proprio valore, innescando una serie di contrattazioni sempre più disperate.
Le paure del “giovedì nero” si materializzano cinque giorni dopo. Martedì 29 ottobre gli agenti negoziano la vendita di oltre 15 milioni di azioni, facendo segnare una perdita complessiva di valore pari a circa 10 miliardi di dollari. È il “martedì nero”, il giorno che segna l’inizio della Grande Depressione.
La Grande Depressione e i primi tentativi di fermarla
L’esplosione della bolla speculativa provoca fallimenti a catena e fa svanire ogni tipo di fiducia nel mercato. I posti di lavoro saltano a migliaia ogni giorno, gettando sul lastrico parecchie famiglie, costrette a fare i conti con le rate di mutui ormai impossibili da saldare.
Diverse persone non trovano alcuna via d’uscita e decidono di togliersi la vita; moltissime altre sono costrette a lasciare la casa e a rinunciare ai propri beni per affidarsi alla beneficenza, non avendo più né un lavoro né alcun tipo di rendita.
Gli Stati Uniti devono pertanto fronteggiare l’aumento della povertà e della disoccupazione. Anche se molti analisti collegano il crollo alle speculazioni finanziarie, il presidente repubblicano Herbert Hoover non abbandona la fiducia nel mercato: il governo continua ad adottare una strategia liberista, rinunciando a intervenire nella gestione dell’economia e lasciando il campo aperto ai privati. L’urto del tracollo finanziario è talmente forte da investire non soltanto le realtà già inserite nell’orbita statunitense, ma tutto il mondo occidentale.
A farne le spese è soprattutto la Germania, che conta sui prestiti americani per risollevarsi dagli stenti dell’immediato dopoguerra. Quando la crisi interrompe il flusso degli aiuti, il sistema tedesco sprofonda in un baratro ancora peggiore di quello affrontato nella prima metà degli anni Venti. Queste difficoltà alimentano il malcontento della popolazione e favoriscono l’ascesa del Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler.
Il New Deal
L’economia degli USA rimane avvinta dalle difficoltà per diversi anni. Gli scenari iniziano a cambiare nel 1933, quando il democratico Franklin Delano Roosevelt vince le elezioni presidenziali. Il suo primo mandato segna l’avvio del New Deal, un piano d’azione che si basa sulle teorie dell’economista britannico John Maynard Keynes.
Lo Stato comincia a intervenire nell’economia, commissionando opere pubbliche per generare occupazione e allargando la spesa destinata ai servizi. Queste misure mirano a stimolare la domanda privata, consentendo alle imprese di riattivare pienamente i cicli produttivi e proiettando così il sistema in un nuovo ciclo espansivo.
Roosevelt si guadagna i consensi delle classi medio-basse, ma incontra parecchie resistenze tra i sostenitori del sistema economico liberista. Le lobbies che hanno tratto notevoli vantaggi dalle speculazioni finanziarie e dagli squilibri sociali non sono infatti disposte a perdere le proprie posizioni.
Il confronto politico è serrato, ma il New Deal si afferma per la capacità di prospettare un piano di sviluppo a medio e lungo termine. L’intervento statale nell’economia provoca effetti positivi, anche se il sistema statunitense impiega quasi un decennio a far segnare nuovamente parametri in linea con quelli del 1928. Soltanto la mobilitazione generale per il secondo conflitto mondiale spingerà i livelli della produzione decisamente oltre i livelli degli anni Venti.
Per saperne di più
Per approfondire la storia raccontata in questo post, consigliamo la lettura di alcuni libri:
- La grande depressione. Le conseguenze politiche ed economiche del ’29, di Franco Catalano
- Il Grande Crollo: Che cosa ci ha insegnato sul capitalismo la Grande depressione, di John K. Galbraith
- Il secolo breve 1914-1991, di Eric J. Hobsbawm
- Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, di Marc Mazower
- Storia degli Stati Uniti, di Oliviero Bergamini
E, last but not least, il più celebre romanzo sugli Stati Uniti della Grande Depressione: Furore, di John Steinbeck.
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