Johannesburg, 5 dicembre 2013, ore 20,50. Il cuore di Nelson Mandela cessa di battere, dopo 95 anni segnati dalla voglia di vivere in libertà e giustizia. Quando le agenzie di stampa comunicano la morte del leader che ha sconfitto l’apartheid, comincia una struggente cerimonia laica. Tutto il Sudafrica si ferma per salutare Madiba, la grande anima della “nazione arcobaleno”. L’emozione raggiunge presto gli altri continenti, perché l’umanità intera sa molto bene chi è Nelson Mandela. Migliaia di persone hanno infatti tratto ispirazione dalla forza tranquilla di quest’uomo, disposto a mettere da parte l’odio per realizzare un futuro di pace e prosperità nella sua terra.
Appena ricevo la notizia della morte di Mandela, mi salta in mente il numero 46664. È la matricola di Madiba nel penitenziario di Robben Island. L’ho scoperto diversi anni prima, per caso, in una sera d’inverno. Quel numero era impresso con un carattere opaco su tutti i campi da basket dell’Eurolega, la massima competizione europea per club. Si stagliava sul legno dei parquet come un tatuaggio sulla pelle di un carcerato. Quel numero mi ha spinto a cercare la storia dell’uomo che lo portava addosso. Quella vicenda umana, segnata dall’orgoglio e minata dai pregiudizi, mi è rimasta dentro.
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Chi era Nelson Mandela? Storia di un uomo contro l’apartheid
Nelson Mandela nasce a Mvezo, nella provincia di Cape Town, il 18 luglio 1918. Tuttavia non si chiama Nelson: i genitori gli impongono il nome Rolihlahla. È un bambino fortunato, poiché è figlio di un capo locale, inserito nell’alta società xhosa. Quando supera la soglia dei 20 anni, la famiglia cerca di imporgli un matrimonio combinato. Rolihlahla non accetta però l’idea di sposarsi per rispettare un ordine e fugge a Johannesburg.
Quando arriva in città, decide di chiamarsi “Nelson” e s’iscrive alla facoltà di legge dello University college of Fort Hare. Ha già una personalità piuttosto spiccata: ama lo sport, in particolare il pugilato, e le donne. Vive una giovinezza intensa e appagante, ma qualcosa gli impedisce di sentirsi del tutto realizzato. È molto più ricco e fortunato di tanti altri ragazzi africani, ma nella società sudafricana di quegli anni la pelle dal colore dell’ebano è l’ostacolo più grande.
Nella “patria” dei britannici e degli afrikaner, discendenti dei colonizzatori olandesi, i neri non sono cittadini al pari dei bianchi. Non possono neppure vivere al loro fianco, frequentando gli stessi luoghi. È infatti in vigore l’apartheid, un sistema legislativo che impone la segregazione razziale.
Nelson non accetta il razzismo. Già nel 1942 aderisce a un partito di ispirazione proletaria, l’African National Congress. Comincia a studiare i problemi da una prospettiva di profonda apertura culturale. Si sente un privilegiato, quindi decide di lottare per garantire i diritti anche ai suoi fratelli più poveri.
Dalla lotta contro il razzismo al penitenziario di Robben Island
A 40 anni Nelson capisce che i sostenitori dell’apartheid, pur di mantenere i loro privilegi, sarebbero disposti a massacrare i neri. Accetta allora di impugnare le armi e di organizzare la guerriglia. È disposto a rischiare tutto ciò che ha, pur di cambiare il Sudafrica.
Entra in clandestinità, ma presto le forze governative lo scoprono e lo arrestano. I media degli afrikaner lo presentano come un pericoloso terrorista. Nel 1964 Mandela viene rinchiuso a Robben Island, nel buio di una cella di isolamento. Ogni giorno sente il rumore dei picconi con cui gli altri detenuti spaccano le pietre del cortile. Diventa così il numero 46664.
I carcerieri si convincono che quell’uomo in catene non sarebbe più tornato a essere Mandela, il leader carismatico della lotta contro l’apartheid. In fondo, nel resto del mondo quelli che conoscono la sua storia sono troppo pochi per muovere le opinioni delle masse. Negli anni Sessanta il regime segregazionista è anche piuttosto tollerato dall’establishment occidentale. Chi potrebbe mai mantenere viva la speranza di rovesciarlo dall’interno?
Nel buio della sua cella, tuttavia, Mandela non smette di credere nel cambiamento. Gli anni Settanta del Sudafrica scorrono senza stravolgimenti, ma nel resto dell’Occidente molte persone cominciano a interessarsi delle ingiustizie subite dai “dannati della terra”.
Il mondo comincia ad accorgersi che quell’uomo, ormai chiamato affettuosamente Madiba, può diventare l’anima libera dell’Africa nera. Comincia una mobilitazione che si prolunga fino alla metà degli anni Ottanta. Nel decennio di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, una generazione di musicisti raccoglie il grido degli oppressi del Sudafrica e chiede la libertà del prigioniero numero 46664. Anche diverse istituzioni sportive decidono di punire gli artefici dell’apartheid, escludendo le rappresentative sudafricane dalle competizioni internazionali.
La liberazione dal carcere e l’arrivo al potere
Alla fine degli anni Ottanta la battaglia di Nelson Mandela si avvicina a una conclusione positiva. Madiba continua infatti a far sentire un’energia che si proietta al di là delle sbarre e dei muri. Anche l’apartheid ha le ore contate: il governo inizia infatti a smantellare la segregazione razziale.
L’11 febbraio 1990 il presidente De Klerk ordina la scarcerazione del detenuto-simbolo dell’apartheid, che pronuncia subito un discorso molto ispirato. Il Sudafrica sta per entrare in una nuova epoca.
Quando esce dal carcere, Mandela assume ufficialmente la guida dell’African national congress. Passano quattro anni e il Sudafrica organizza le prime elezioni presidenziali alle quali possono partecipare liberamente anche i neri. Con quel voto Mandela diventa presidente dello Stato che lo ha rinchiuso per 27 anni nella cella di Robben Island. Un’intera generazione di neri non vede l’ora di abbattere i simboli della discriminazione.
Quasi tutti vorrebbero cancellare la nazionale di rugby, ovvero gli Springboks, il simbolo sportivo della supremazia bianca. Quasi tutti si aspettano che Mandela annienti una squadra che ha sempre sostenuto la propaganda dell’apartheid. I piani di Madiba, però, sono radicalmente diversi. Quando era giovane, non sognava di eliminare i bianchi, ma di costruire una nuova nazione per tutti i sudafricani.
Per questo nel 1995, quando il Sudafrica organizza il Mondiale di rugby, Mandela decide di abbracciare in pubblico François Pienaar, il capitano degli Springboks.
La “nazione dell’arcobaleno”
Il giocatore si lascia guidare dal presidente in una visita a Robben Island, poi trasmette alla squadra un messaggio di unità. Il Sudafrica non è favorito dai pronostici, ma gioca con grande determinazione e riesce a vincere il campionato del mondo. Per la prima volta il Paese celebra un trionfo degli Springboks in un’atmosfera di festa generale.
Dopo decenni di segregazione e di odio, i bianchi e i neri si scoprono uniti sotto la bandiera della nuova Repubblica. Mandela non riesce a risolvere completamente il problema del razzismo, ma dimostra che lo sport può trasformarsi in un linguaggio di fratellanza. Nel 1996 il calcio, giocato soprattutto dai neri, gli regala un’altra grande gioia. La sua nazionale, conosciuta con l’appellativo di Bafana-Bafana, vince la Coppa d’Africa.
Gli ultimi anni
Negli anni Duemila decine di atleti fanno visita a Madiba, ritenuto ormai un simbolo della lotta antirazzista. La NBA, il massimo campionato del basket statunitense, lo nomina addirittura ambasciatore del proprio sport in Africa. L’ultimo grande regalo arriva dalla FIFA: il discusso presidente Joseph Blatter assegna al Sudafrica l’organizzazione della Coppa del Mondo di calcio del 2010.
Quando si aprono i giochi, Madiba ha già 92 anni ed è malato, ma non rinuncia a partecipare. Sfida il gelo di Johannesburg per un giro di campo su un caddy elettrico. È la sua ultima immagine pubblica. Nei tre anni successivi i polmoni non gli permettono più di restare sotto i riflettori. Madiba trascorre l’ultima fase della sua vita tra la casa di Johannesburg e l’ospedale.
Nel 2019, a sei anni dalla morte, Nelson Mandela può ancora essere considerato uno dei personaggi più influenti di due secoli distinti: il Ventesimo e il Ventunesimo. Il suo ricordo continua a guidare chi si batte per i diritti degli “ultimi”, anche quando le missioni sembrano impossibili. Proprio per questo, oggi più che mai, è importante conoscere la storia di questo protagonista dell’ultimo secolo. Perché sapere chi è Nelson Mandela aiuta a ricordare che le battaglie per la giustizia e la libertà possono essere vinte.
Per saperne di più
Per approfondire la storia raccontata in questo post, consigliamo la lettura di alcuni libri:
- Lungo cammino verso la libertà. Autobiografia, di Nelson Mandela
- Lettere dal carcere, di Nelson Mandela
- Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione, a cura di Gian Luca Potestà, Claudia Mazzucato e Arturo Cattaneo
- Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche agli stati nazionali, di Giampaolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi.
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