Il 9 gennaio 1950 a Modena si tiene uno sciopero generale a sostegno dei lavoratori licenziati in seguito alla serrata delle Fonderie Riunite. I manifestanti raggiungono la zona dello stabilimento per impedire l’eventuale accesso di “crumiri”. La fabbrica è presidiata dalle forze dell’ordine, che temono l’innesco di un tentativo rivoluzionario.

Nel corso della mattinata gli agenti di Polizia e i Carabinieri aprono più volte il fuoco contro i manifestanti sia nell’area dello stabilimento, sia lungo la via Ciro Menotti. Sei lavoratori restano uccisi e parecchi altri riportano ferite di varia entità.

Nell’immediato la tragedia accentua la polarizzazione politica tra le Sinistre, pronte a denunciare le violenze dello Stato, e forze politiche dell’area moderata, determinate a sostenere a ogni costo i tutori dell’ordine pubblico. I fatti del 9 gennaio segnano tuttavia anche un “punto di non ritorno”, dal momento che costituiscono l’ultima strage di lavoratori dell’immediato dopoguerra italiano.

Come si arriva a quel 9 gennaio 1950, un giorno così drammatico per la città di Modena? In quale contesto vivono la popolazione e i lavoratori dopo la Seconda guerra mondiale? Daniel Degli Esposti ne parlerà nella conferenza La Repubblica ferita. Le lotte sindacali a Modena nel dopoguerra e l’eccidio del 9 gennaio 1950.

L’appuntamento è fissato per giovedì 9 gennaio alle ore 15 a Modena, presso la sede dei Servizi sociali del Quartiere 1 (ex scuola Giovanni Battista Ceccherelli), in piazza Redecocca 1. L’evento è promosso dal Circolo Cultura “Il Girasole”, dal Comitato Anziani Centro Storico APS e dal Comitato comunale modenese dell’ANPI.

In attesa della conferenza, ecco qui una breve anticipazione dei temi trattati.

Corteo per commemorare i sei lavoratori uccisi dalla forza pubblica il 9 gennaio 1950. Foto via Wikimedia Commons

Corteo per commemorare i sei lavoratori uccisi dalla forza pubblica il 9 gennaio 1950. Foto via Wikimedia Commons

Modena dal secondo dopoguerra al 9 gennaio 1950: il modello della “fabbrica democratica”

Nell’immediato dopoguerra la determinazione alla lotta anima la classe operaia modenese, cresciuta a partire dalla metà degli anni Trenta sull’onda del riarmo fascista. Il proletariato industriale modenese mantiene forti legami con la realtà rurale della pianura, poiché parecchi operai continuano ad aiutare le famiglie nei lavori dei campi.

Si forma dunque un contesto sociale in cui i protagonisti delle lotte contadine e i metalmeccanici condividono abitualmente gli orizzonti della lotta, sostenendosi reciprocamente e rinforzando la posizione delle organizzazioni sindacali nella società cittadina.

Nella primavera 1945 gli operai modenesi realizzano il modello della “fabbrica democratica”. Tra gli operai si diffonde l’idea che gli industriali abbiano approfittato del fascismo per arricchirsi a dismisura, sfruttando il lavoro degli “ultimi” e sostenendo le guerre del regime, senza però combatterle in prima linea.

Un manifestante con un cartello contro gli “affamatori del popolo” in una manifestazione modenese del secondo dopoguerra. Foto tratta dal fondo fotografico di Giuseppe Simonini, digitalizzato presso il Gruppo di documentazione vignolese Mezaluna – Mario Menabue.

Agli occhi di molti non è dunque accettabile che i “padroni” mantengano tutto ciò che hanno ottenuto nell’epoca fascista anche dopo la Liberazione, difendendo la propria condizione privilegiata a danno della collettività. Dal momento che i lavoratori hanno difeso gli stabilimenti dalle razzie naziste e i partigiani hanno lottato per riprenderne il controllo, quei luoghi non sono più soltanto sedi produttive, ma diventano anche spazi di socialità. Le mense aziendali ospitano, pertanto, assemblee, feste e balli, ai quali partecipano anche gli abitanti dei quartieri.

Nelle fabbriche le commissioni interne affermano il proprio potere e influenzano in modo decisivo le dinamiche della produzione. I lavoratori ottengono un controllo sempre più ampio sul collocamento, imponendo alle direzioni aziendali l’assunzione di manodopera disoccupata, per sfruttare al massimo il potenziale degli stabilimenti.

La crisi dell’industria e le tensioni sociali

La fine dell’economia di guerra è una mazzata per le fonderie e per le aziende del comparto meccanico. Gli imprenditori si sono arricchiti grazie alle commesse belliche del regime fascista. Le industrie hanno inoltre approfittato di un mercato protetto e di uno Stato che soffocava brutalmente le rivendicazioni dei lavoratori, abbattendo i costi di produzione. Non a caso diversi imprenditori, come Giovanni Valdevit e Adolfo Orsi, non hanno inoltre mai nascosto la propria adesione al fascismo.

Adolfo Orsi (al centro) mentre mostra ad alcuni visitatori lo stabilimento della Maserati. Foto via Wikimedia Commons

La classe dirigente industriale modenese non è dunque pronta al confronto con il mercato libero e con la forza rivendicativa della classe operaia. Fino alla metà del 1947 gli scioperi e le manifestazioni consentono ai lavoratori di mantenere il controllo della situazione nelle fabbriche. I proprietari sono costretti alla difensiva, ma attendono con impazienza che gli scenari politici nazionali o internazionali provochino un ribaltamento dello scenario.

Quando le Sinistre vengono escluse dal governo italiano, comincia infatti una repentina inversione di tendenza, nella quale la vecchia classe dirigente cerca di riprendere il controllo della situazione. Le occupazioni delle fabbriche e gli scioperi vengono contrastati con decisione crescente dalla forza pubblica, impiegata non soltanto per reprimere le potenziali violazioni dell’ordine pubblico, ma anche per mandare un messaggio alle formazioni che vogliono battersi per cambiare il sistema.

I cambiamenti del 1948

Il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, che riconosce il lavoro come il fondamento della convivenza tra i cittadini nel sistema democratico. La legge fondamentale dello Stato segna una rottura molto drastica con il passato dell’Italia liberale e fascista: non è tuttavia semplice garantire l’applicazione completa dei principi condivisi dalla maggioranza dell’Assemblea costituente, poiché le istituzioni tendono a perpetrare i meccanismi di funzionamento attraverso il tempo.

Storia della Costituzione. Umberto Terracini, presidente dell'Assemblea costituente dall'8 febbraio 1947 allo scioglimento, firma la Costituzione italiana

Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente dall’8 febbraio 1947 allo scioglimento, firma la Costituzione italiana

La “continuità dello Stato” impone infatti le sue logiche non soltanto nella gestione del personale amministrativo, ma anche nell’impianto normativo della Repubblica. Restano infatti in vigore diversi elementi della legislazione fascista, tra i quali il Testo unico di pubblica sicurezza del 1931. Gli articoli relativi ai diritti civili, politici e sociali restano in gran parte disattesi, mentre il controllo dell’ordine pubblico è favorito dall’adozione di strategie varate nel pieno della dittatura.

Alle elezioni politiche del 18 aprile la Democrazia cristiana ottiene una netta vittoria e avvia gli anni del “centrismo”. Il successo del partito cattolico galvanizza parecchi agrari e imprenditori, che riaffermano il controllo padronale sui mezzi di produzione. La tensione sale ulteriormente il 14 luglio, dopo l’attentato dello studente qualunquista Antonio Pallante a Palmiro Togliatti. La CGIL indice uno sciopero generale e in varie località d’Italia i comunisti insorgono; le forze dell’ordine cercano di reprimere con durezza le manifestazioni. Dopo ore di scontri e tensioni, Togliatti invita i militanti a mantenere la calma, contribuendo in maniera decisiva a placare la situazione.

La “riscossa padronale” e le tensioni del 1949

Dopo le elezioni del 1948 la società modenese raggiunge notevoli livelli di polarizzazione. Da una parte gli imprenditori e gli agrari mirano a riconquistare pienamente le posizioni di potere, affermando con risolutezza la legittimità dei propri privilegi; dall’altra il Partito comunista e la Camera del lavoro non vogliono rinunciare ai risultati ottenuti nel dopoguerra, dal momento che la forza numerica delle loro organizzazioni non conosce cali.

Nella Federazione comunista modenese prevale una linea piuttosto distante dall’apertura ai ceti medi, che impernia la “democrazia progressiva” di Palmiro Togliatti. I militanti della città e della provincia sono convinti che il proletariato urbano e rurale sia abbastanza forte per “fare da sé”. Gli espliciti sostenitori di Pietro Secchia non sono tanti, ma l’azione del Partito assume spesso connotati settari, che sfociano nella critica di tutti i compromessi con le classi avversarie.

Non sorprende, pertanto, che l’ennesima minaccia di licenziamenti alle Fonderie Riunite, lanciata da Adolfo Orsi il 20 ottobre, inneschi una forte reazione sindacale. Il 17 novembre l’imprenditore dà l’ultimatum ai lavoratori, imponendo l’abolizione del “cottimo collettivo”, la neutralizzazione della commissione interna e la fine di ogni attività politico-sindacale in fabbrica. Di fronte a queste richieste, i lavoratori proseguono le agitazioni e gli scioperi.

Lo stabilimento delle Fonderie Riunite in una cartolina del 1938. Foto via Wikimedia Commons

La vertenza delle Fonderie Riunite: una trattativa impossibile

Il 28 dicembre Adolfo Orsi fa affiggere a Modena i manifesti che comunicano la sua decisione: le Fonderie Riunite riapriranno il 9 gennaio 1950 con soli 250 operai, rispetto ai 560 del periodo precedente. Chi vorrà essere assunto, dovrà presentare domanda alla direzione aziendale, che si riserverà di scegliere a propria discrezione. Pochissimi lavoratori rispondono all’appello, mentre gli altri proseguono la lotta contro il “padrone” e organizzano i “picchetti” intorno allo stabilimento.

La CGIL organizza dunque uno sciopero generale per la mattina del 9 gennaio 1950. Alcuni vorrebbero occupare la fabbrica e ricominciare a lavorare, adottando il modello dello “sciopero a rovescio”, ma prevale una linea più cauta. Le organizzazioni sindacali decidono di passare davanti allo stabilimento per evitare l’ingresso dei “crumiri”, lavoratori non sindacalizzati e spesso in condizioni economiche disperate.

Alla richiesta di una piazza per il comizio della CGIL, il prefetto non risponde affermativamente. Decide inoltre di potenziare le forze dell’ordine per difendere le Fonderie Riunite. Nell’area dello stabilimento vengono istituiti tre “cordoni di sicurezza”. Le autorità dello Stato temono l’innesco di una protesta rivoluzionaria e sono disposte a usare il massimo grado della forza.

Il 9 gennaio 1950 a Modena: la strage delle Fonderie Riunite

Il 9 gennaio 1950, già prima dell’alba, i sindacalisti e parecchi lavoratori si ritrovano al circolo Sirenella per ribadire la propria linea di condotta. Nella prima parte della mattinata si avvicinano dunque alle Fonderie Riunite, incontrando a più riprese i reparti della forza pubblica.

I manifestanti sono circa 10.000 e non hanno armi da fuoco, né ordigni, ma sono determinati ad arrivare vicino alla fabbrica. Tuttavia i primi “cordoni di sicurezza” impediscono loro di avanzare. Si accendono alcuni tafferugli: gli scioperanti cercano di farsi largo a spintoni o a pugni, mentre qualcuno usa l’asta della bandiera; dalla massicciata ferroviaria vengono lanciati alcuni sassi contro le forze dell’ordine, che arretrano fino a ridosso dello stabilimento.

La folla non invade la fabbrica, ma resta allerta per ostacolare l’eventuale accesso dei “crumiri”. Gli agenti di Polizia e i Carabinieri sono, però, convinti che stia per cominciare un sovvertimento rivoluzionario e temono non soltanto per la stabilità dello Stato, ma anche per la loro stessa incolumità.

I manifestanti intorno allo stabilimento delle Fonderie Riunite il 9 gennaio 1950. Foto via Wikimedia Commons

I manifestanti intorno allo stabilimento delle Fonderie Riunite il 9 gennaio 1950. Foto via Wikimedia Commons

Intorno alle 10 i Carabinieri appostati sul tetto delle Fonderie Riunite si accorgono che un gruppetto di manifestanti sta attraversando i binari. I militari temono che sia l’inizio dell’assalto e aprono il fuoco, uccidendo un lavoratore e ferendone altri. A quel punto le raffiche spaventano gli altri reparti della forza pubblica, che a loro volta reagiscono col fuoco. I militari appostati sul tetto continuano a sparare, provocando la morte di altri due manifestanti.

Le prime tre vittime sono il meccanico ventinovenne Angelo Appiani, il bracciante ventenne Arturo Malagoli e lo spazzino quarantaduenne Arturo Chiappelli, militanti comunisti. Quando le forze dell’ordine cominciano a sparare ad altezza-uomo, molti manifestanti cercano di mettersi in salvo e trovano assistenza presso le famiglie del quartiere operaio della Crocetta.

Altri spari, altri morti

Nel frattempo alle Fonderie Riunite arrivano rinforzi: un reparto di Carabinieri da Bologna giunge nell’area dello stabilimento e contribuisce a disperdere i manifestanti. Intorno alle 11, a circa 500 metri dalla fabbrica, alcuni militari dell’Arma circondano il trentacinquenne Roberto Rovatti, operaio delle Fonderie Corni, che indossa una sciarpa rossa e porta un cartello. I Carabinieri lo picchiano con il calcio dei fucili, lo gettano in un fossato e gli sparano a bruciapelo, uccidendolo.

Nell’ultima parte della mattinata gli operai abbandonano l’area dello stabilimento, incalzati dalla Polizia. Il carrettiere ventenne Ennio Garagnani, militante comunista, si trova all’imbocco di via Ciro Menotti, quando viene colpito alla testa da un proiettile sparato da notevole distanza, probabilmente da un’autoblindo dei Carabinieri di Bologna.

L’ultima vittima dell’eccidio è il calzolaio ventunenne Renzo Bersani, che in passato ha lavorato alle Fonderie Riunite. Mentre abbandona rapidamente l’area dello stabilimento, viene colpito alle spalle a un incrocio di via Ciro Menotti da un carabiniere, che s’inginocchia per prendere la mira.

Nel corso della mattinata almeno 140 manifestanti restano feriti: parecchi di loro soffrono per lesioni alla schiena, poiché di fronte alle raffiche dei militari e dei poliziotti possono solo scappare. In quel giorno sono tanti coloro che non denunciano i danni subiti per paura di essere denunciati o perseguitati. Nel mattino del 9 gennaio vengono infatti arrestati 93 manifestanti: 31 di loro vengono rilasciate l’indomani, mentre altre 49 dopo due giorni, dal momento che non sono emerse a loro carico prove di reato.

Ricordo dei sei manifestanti uccisi il 9 gennaio 1950 a Modena, nella zona delle Fonderie Riunite. Foto via Wikimedia Commons

Ricordo dei sei manifestanti uccisi il 9 gennaio 1950 a Modena, nella repressione dello sciopero alle Fonderie Riunite. Foto via Wikimedia Commons

Una città sconvolta

La città è sconvolta, ma nel pomeriggio del 9 gennaio 1950 le organizzazioni sindacali e i partiti della Sinistra tengono ugualmente il comizio. In una piazza Roma circondata dalla forza pubblica, Alcide Malagugini, Sergio Rossi e Attilio Trebbi affermano risolutamente che i manifestanti non avevano armi da fuoco. Tuttavia non incitano il popolo alla vendetta contro le istituzioni dello Stato.

All’interno dei palazzi, però, le autorità sostengono fin da subito che i Carabinieri e gli agenti di Polizia hanno sparato per difendersi dall’assalto armato operaio. La loro ricostruzione è tuttavia palesemente distorta, poiché le forze dell’ordine non subiscono perdite e tutti i loro pochi feriti riportano contusioni da “arma bianca”: i più gravi risultano guaribili in 15 giorni.

Per saperne di più

Per approfondire la storia raccontata in questo post, consigliamo la lettura di alcuni libri, disponibili per l’acquisto online:

  • All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, di Lorenzo Bertucelli
  • Modena, di Giuliano Muzzioli
  • Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi, di Stefano Musso
  • La Repubblica inquieta: L’Italia della Costituzione. 1946-1948, di Giovanni De Luna
  • Storia del PCI: 1921-1991, di Albertina Vittoria

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