Un viaggio in Belgio può diventare un’ottima occasione per scoprire tanti luoghi legati alla Prima guerra mondiale. Tra la Vallonia e i campi di Fiandra le “tempeste d’acciaio” del conflitto hanno lasciato segni tuttora visibili. Anche le comunità locali raccontano con insistenza quel passato di trincee e occupazioni militari, fame e paura.
Poche altre zone d’Europa possono custodire una simile varietà di esperienze, memorie e ricordi della Grande Guerra. Se ami la storia del Novecento e vuoi capire lo shock di un conflitto totale, il racconto delle storie che ho riscoperto nel viaggio in Belgio su alcuni luoghi della Prima guerra mondiale fa proprio al caso tuo!
Il mio viaggio in Belgio e le tracce della Prima guerra mondiale
La storia narrata in questo post non è soltanto il frutto delle letture e degli studi che da storico ho fatto sulla Prima guerra mondiale. Il racconto prende le mosse da un viaggio in Belgio, che ho condiviso con Paola Gemelli nel luglio del 2019. Venivamo dai Paesi Bassi e, dopo aver visitato Bruxelles, volevamo scoprire le Fiandre.
A Brugge ci siamo trovati di fronte a un contesto che permette di comprendere la secolare ricchezza di queste terre. Fin dal Basso Medioevo i fiamminghi sono infatti riusciti nell’impresa di adattarsi ai cambiamenti, mantenendo una posizione preminente sia nella produzione, sia nel commercio. Tra le vie e i canali di Brugge le bellezze di una ricca città mercantile del Basso Medioevo sono immerse nell’atmosfera del turismo contemporaneo. Camminando per quelle strade, la Grande Guerra sembra lontana anni-luce, ma in realtà è presente nel silenzio di tanti angoli. Lapidi e monumenti punteggiano i viali, i muri degli edifici e gli interni delle chiese, poiché l’esperienza del conflitto ha segnato in maniera indelebile la città e tutto il Belgio.
A Gent abbiamo invece scoperto come la “capitale” fiamminga del Cinquecento è diventata uno dei primi e dei principali poli industriali dell’Ottocento europeo. Per capire la Grande Guerra è importante partire dalle contraddizioni della Belle Époque, poi travolta – proprio come il Belgio – dalla Prima guerra mondiale.
Per completare il viaggio in Belgio, abbiamo infine esplorato la zona di Ieper (conosciuta nel mondo come Ypres) e Passchendaele. Abbiamo alloggiato in un hotel a pochi metri dallo Hooge Crater, che oggi è uno stagno circondato da residui di trincee e pascoli, ma si è formato in seguito all’esplosione di una mina.
Lungo i nostri percorsi non abbiamo cercato soltanto i segni delle battaglie, ma soprattutto immagini e testimonianze che potessero far emergere aspetti della vita quotidiana nel 1914-1918. Come si viveva a ridosso del fronte? Dove andavano le persone e le famiglie che avevano perso la casa per colpa della guerra? Siamo partiti da queste domande… e ci siamo addentrati in un viaggio pieno di scoperte e di emozioni.
Il Belgio nella Prima guerra mondiale
Un “piccolo” antefatto: il Belgio e il Congo
L’estate del 1914 si apre in uno scenario di prosperità e squilibri. Da poco meno di trent’anni il Belgio, una delle più importanti potenze industriali dell’Ottocento, è un impero coloniale. Nel 1885 la Conferenza di Berlino assegna alla persona di re Leopoldo II il cuore dell’Africa nera, che da quel momento in poi viene chiamato “Stato libero del Congo”. Pochi nomi sono più eloquenti e paradossali di quest’ultimo. Lungo le rive del grande fiume la libertà parla vallone o fiammingo e ha il colore della conquista. Per entrare in quel “mondo”, non c’è niente di meglio che immergersi in Cuore di tenebra, il capolavoro di Joseph Conrad.
Ma che cosa succede nello Stato libero del Congo? Il sovrano comincia a spremere senza sosta la sua proprietà personale, donne e uomini compresi. Agli abitanti non restano margini di libertà, ma soltanto la fame, i lavori forzati e i morsi dei cani da guardia. Tra la conquista e il 1908, quando la colonia passa sotto il controllo dello Stato e nasce il Congo belga, circa 10 milioni di congolesi muoiono per gli stenti e per le violenze dei belgi. È un numero talmente grande che rischia di diventare una semplice statistica, passando sotto silenzio.
In un caso del genere il pericolo dell’oblio raddoppia, dal momento che le vittime sono africane. Le potenze europee di inizio Novecento sono convinte di avere innescato un progresso inarrestabile. Molti leader credono di avere il diritto di controllare le risorse dei territori più poveri, poiché ai loro occhi gli abitanti non le sfruttano a dovere. Il poeta britannico Rudyard Kipling afferma che il suo popolo porta “il fardello dell’uomo bianco”, tenuto a “civilizzare” i popoli “inferiori”.
Anche tanti progressisti si convincono che nei contesti coloniali la violenza sia inevitabile. Non capiscono che le repressioni e i genocidi commessi in Africa possono anche sfuggire al controllo. Cosa potrebbe succedere, se qualcuno identificasse il nemico inferiore non più nel “nero”, ma in un altro europeo?
I nazionalismi e la Grande Guerra
Nell’estate del 1914 i nazionalismi infiammano l’Europa intera. Il 28 giugno a Sarajevo lo studente bosniaco di etnia serba Gavrilo Princip uccide l’arciduca d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando e la sua consorte. Un mese dopo, da Vienna, imperatore Francesco Giuseppe dichiara guerra al regno di Serbia, accusandolo di aver sostenuto gli organizzatori dell’attentato.
Da quel momento s’innesca un effetto-domino che porta al conflitto europeo. Lo zar di Russia sostiene i “fratelli slavi” per proiettarsi nei Balcani. Allora il kaiser tedesco Guglielmo II si schiera al fianco dell’Impero austro-ungarico. Appena la Germania entra nel conflitto, la Francia le dichiara guerra. Pochi giorni dopo si aggiunge anche l’Impero britannico, che teme l’ascesa economica della potenza tedesca.
Nel volgere di quaranta giorni l’Europa della Belle Époque diventa un continente in armi. Le parole che descrivono meglio quelle settimane sono della scrittrice Barbara Tuchman. Quando cominciano a tuonare “i cannoni d’agosto”, i popoli corrono a rimpolpare gli eserciti. Le società si mobilitano in massa. Molti sono convinti che sarà soltanto una “guerra-lampo”, capace di spazzare via le disuguaglianze sociali e le lentezze della burocrazia.
Quando divampa la guerra europea, il Belgio non ha un vero e proprio esercito. Nessuno pensa di averne bisogno: anche se l’industria ha perso competitività sui mercati, dal Congo arrivano ricchezze e prestigio. Non ci sono neppure particolari “conti in sospeso” con altri popoli. Tra la Vallonia e le Fiandre la vita scorre normalmente fino all’inizio di agosto, quando la Germania mette in atto il “piano Schlieffen”. È una “manovra a tenaglia”, che punta ad aggirare le difese francesi, piombando su Parigi da nord e da sud. Lungo la direttrice settentrionale della marcia tedesca si trova proprio il Belgio.
Il Belgio invaso
I tedeschi oltrepassano il confine con il Belgio e non si fermano. Che fare? Il loro obiettivo è la Francia, ma molti capiscono che l’attraversamento del territorio è tutt’altro che benevolo. Qualcuno grida all’occupazione militare, altri si armano, mentre l’esercito cerca di organizzarsi in fretta e furia. I belgi cominciano la resistenza. I pochi soldati di carriera si uniscono a tutti quei civili che non vogliono sentirsi governati dai tedeschi. La tensione cresce in ogni angolo del paese: qualcuno collabora con i militari del kaiser, tanti altri attendono che “la tempesta” passi. Tuttavia, almeno questa volta, le speranze sono vane.
I tedeschi non sono disposti ad affrontare pericoli, né a tollerare perdite di tempo. Gli ufficiali vogliono portare a termine la loro missione e hanno bisogno di truppe motivate. La paura di subire attacchi dalla resistenza belga è il peggior nemico dell’avanzata germanica. Non a caso tra i reparti cominciano a diffondersi “leggende” molto pericolose, come quella dei franchi tiratori, raccontata da Marc Bloch nel saggio La guerra e le false notizie (Paola Gemelli lo ha citato in questo post sulle fake news storiche). Secondo la “leggenda”, dietro ad alcune fessure presenti nei muri delle case si nascondono cecchini in borghese, pronti a colpire di nascosto e a tradimento i soldati in divisa.
La storia è falsa, ma risulta convincente. Mentre le truppe marciano in un centro abitato, basta uno sparo per scatenare prima il panico e poi il desiderio di vendetta. Si susseguono saccheggi, stupri, uccisioni e devastazioni di villaggi. A Lovanio i militari tedeschi incendiano anche la Biblioteca Universitaria, provocando danni incommensurabili.
Mentre il governo belga si propone al mondo come vittima della furia germanica, la Francia e l’Impero britannico sottolineano la brutalità dei tedeschi in ogni modo possibile. Nella propaganda il nemico non ha una natura umana, quindi nei suoi confronti vale tutto, proprio come contro i “popoli non civilizzati”. Nessuno ormai ricorda più i massacri degli africani nelle colonie, eppure una violenza simile sta per scatenarsi sui fronti d’Europa.
Il fronte occidentale
Nell’autunno del 1914 la Francia ferma l’avanzata delle truppe tedesche lungo la Marna. Il fronte si stabilizza nelle trincee e la guerra diventa un massacro su scala industriale. Le mitragliatrici proteggono le posizioni, abbattendo inesorabilmente i reparti lanciati all’assalto nella “terra di nessuno”. Non è più uno scontro tra eserciti, ma tra sistemi produttivi.
Le società vivono una mobilitazione forzata. Mentre molti uomini combattono, tantissime donne entrano nelle fabbriche militarizzate. Nel migliore dei casi gli abitanti dei territori invasi od occupati sono costretti a fare i conti con la presenza dei soldati. Se, invece, vivono in zone attraversate dai combattimenti, a loro non resta che andarsene. Chi riesce, fugge verso il mare con tutto ciò che ha, sperando di imbarcarsi per la Gran Bretagna. Altri trovano rifugio nei Paesi Bassi, ma vivere da rifugiati è tutt’altro che semplice. Per molti altri, invece, il trasferimento è coatto: gli individui sospetti finiscono internati in campi, dove vengono strettamente sorvegliati.
Nel frattempo l’Impero britannico s’impegna a difendere gli approdi sul Mare del Nord, ma l’esercito germanico comincia a sentire la minaccia del blocco navale. Comincia una “corsa al mare” che investe tutto il nord-ovest del Belgio. Il fronte si stabilizza nell’autunno del 1914. Il fango delle Fiandre ostacola parecchio i movimenti delle truppe. Proprio in quei mesi la città fiamminga di Ieper (conosciuta nel mondo come Ypres) diventa il simbolo di una contesa interminabile. I tedeschi la conquistano, ma riescono a tenerla soltanto per dieci giorni.
La “tregua di Natale”
All’inizio dell’inverno la guerra smentisce i pronostici di quasi tutti i suoi artefici. L’imperatore tedesco Guglielmo II, ad esempio, attendeva i soldati vincitori prima che le foglie cadessero dagli alberi. La sera del 24 dicembre le truppe sono ancora in trincea e sanno che ci resteranno a lungo. La vigilia di Natale risveglia tuttavia la voglia di normalità. Da quattro mesi i soldati sono immersi nella morte di massa: sparano e lanciano bombe, uccidono e cercano di salvarsi. Molti di loro non ne possono più.
Nei pressi di Ypres le trincee sono vicinissime. In molti luoghi i soldati dell’Intesa sentono quello che fanno i loro nemici e viceversa. Nella notte di Natale gli uni sentono gli altri cantare e celebrare in qualche modo la festa imminente. È una tregua non scritta, ma fissata dagli ordini degli ufficiali. Nessuno vuole dare spazio alla rabbia della propaganda avversaria per aver organizzato un attacco nel giorno di Natale.
A un certo punto, però, accade l’imprevisto. Qualcuno decide di uscire dalle trincee con le mani in alto. I nemici si stringono la mano, si scambiano doni e si mostrano le fotografie di famiglia. I soldati non solo rispettano la tregua, ma cominciano anche a fraternizzare. In una distesa fangosa non lontano da Ypres va addirittura in scena una partita di foot-ball, nella quale i tedeschi battono 3-2 i “maestri del gioco” britannici. Nel 2014, a cent’anni dalla tregua di Natale, quel match riprende vita in un celebre spot della catena di supermercati Sainsbury’s.
I soldati non dimenticheranno mai quel “Natale di pace” nel mezzo della Grande Guerra, anche perché sanno che non può durare. La notizia della tregua corre da una linea all’altra, fino a raggiungere i comandi. Gli ufficiali temono che i soldati facciano la pace nelle trincee. Qualcuno, particolarmente spaventato dai moti del popolo, sente addirittura aria di rivoluzione… In entrambi gli schieramenti si alzano i toni: per non finire al muro, i i comandanti dei reparti devono tornare nei ranghi e convincere i soldati a combattere. La guerra continua.
Ypres e la comparsa dell’iprite
Nella primavera del 1915 le operazioni militari sul fronte di Ypres riprendono vigore dopo i problemi dell’inverno. La città viene ripetutamente colpita dalle artiglierie, che cercano di distruggere le postazioni degli avversari. Dopo nove mesi di combattimenti, uno tra i più bei centri fiamminghi è ridotto in macerie.
Il 22 aprile i tedeschi sfoderano un’arma nuova, destinata a imprimersi in maniera indelebile nelle memorie dei combattenti. È un gas tossico che aggredisce in breve tempo i polmoni e provoca ustioni nei tessuti molli, uccidendo i soldati, ma anche gli animali. Essendo stato sperimentato nei dintorni di Ypres, passerà alla storia con il nome di iprite.
L’attacco è tremendo. Il gas è difficilissimo da riconoscere e sorprende quasi tutte le forme di vita presenti nell’area. Dopo qualche ora i militari tedeschi incaricati di passare in ricognizione trovano solo cadaveri. Lo scenario è terrificante, poiché ciascun soldato sa che, da quel momento in poi, il gas sarà una minaccia e un incubo per tutti.
Gli attacchi con le sostanze asfissianti non saranno decisivi per le sorti del conflitto, ma costringeranno gli eserciti a sviluppare sistemi adatti a contrastare il panico. Da una parte si stimola la costruzione di maschere e dispositivi antigas più sicuri, dall’altra si inaspriscono ulteriormente le misure disciplinari nei confronti di chi non regge.
Se ti interessa scoprire l’impatto psicologico dell’iprite e vedere gli effetti prodotti dalla Grande Guerra sul territorio di Ypres, ti consiglio di visitare In Flanders Fields Museum, allestito nel secondo piano della Cloth Hall, il palazzo che domina il Grote Markt, la piazza del Mercato.
La guerra dei popoli
Durante la Prima guerra mondiale arrivano in Belgio soldati da tutto l’Impero britannico. Le trincee del fronte occidentale divorano armamenti, munizioni, risorse energetiche e vite umane a un ritmo senza precedenti. Nella prima fase del conflitto la Germania regge l’urto grazie alla forza economica, ma impone al popolo enormi sacrifici materiali e morali.
Sul fronte opposto i britannici possono contare su una flotta senza eguali e sulle risorse del Commonwealth. Come nella tradizione del Regno Unito, l’esercito di Sua Maestà è formato dai soli volontari. Per rimpolpare le armate arrivano i reparti dei sudditi: irlandesi, canadesi, australiani, neozelandesi, indiani e sudafricani si arruolano più o meno per forza e partono per l’Europa.
È la guerra dei paradossi. Ci sono popoli che si battono per la potenza del loro Stato, ma anche tanti reparti che lottano per le insegne di un impero multietnico. Qualcuno chiama alle armi per liberare gli oppressi, mentre i sostenitori del militarismo ottengono l’obbedienza con la disciplina.
Quando le contraddizioni superano il livello di guardia, il rischio della rivolta è dietro l’angolo. La prima scintilla si accende in Irlanda nel giorno di Pasqua del 1916. I soldati di San Patrizio non vogliono più morire per il Commonwealth, ma i britannici stroncano la rivolta e ristabiliscono l’ordine. Gli irlandesi ricominciano a partire e rimandano il sogno dell’indipendenza alla fine della guerra.
Sui campi di Fiandra crescono i papaveri
Quando entrano nelle trincee del fronte occidentale, i soldati del Commonwealth combattono per l’imperatore Giorgio V. Molti restano feriti, tanti cadono sui campi di battaglia. Fatta eccezione per gli irlandesi, gli altri di fatto non si ribellano; col passare del tempo maturano tuttavia una loro visione del conflitto e del mondo.
Per tanti ufficiali delle colonie i campi di Fiandra diventano lo stimolo a compiere un passo creativo. Alcuni cominciano a pensare a un futuro d’indipendenza, mentre altri non smettono di pensare ai compagni massacrati nel fango. È il caso di John McCrae, un medico canadese impegnato in una piccola infermeria da campo nel settore di Ypres. Il 3 maggio 1915, sconvolto dalla morte di un amico in battaglia, sente il bisogno di affidare il dolore alla carta. Nasce così la poesia più famosa di tutto il fronte occidentale: In Flanders fields. Nel video la puoi ascoltare in una versione interpretata da Leonard Cohen, mentre sotto trovi la traduzione testuale.
Sui campi delle Fiandre spuntano i papaveri
tra le croci, fila dopo fila,
che ci segnano il posto; e nel cielo
le allodole, cantando ancora con coraggio,
volano appena udite tra i cannoni, sotto.Noi siamo i Morti. Pochi giorni fa
eravamo vivi, sentivamo l’alba, vedevamo
risplendere il tramonto, amanti e amati.
Ma adesso giacciamo sui campi delle Fiandre.Riprendete voi la lotta col nemico:
a voi passiamo la torcia, con le nostre
mani cadenti, e sian le vostre a tenerla alta.
e se non ci ricorderete, noi che moriamo,
non dormiremo anche se i papaveri
cresceranno sui campi di Fiandra[Traduzione di Riccardo Venturi]
In breve tempo la poesia di McCrae si diffonde in tutto l’Impero britannico e i papaveri diventano il simbolo dei soldati caduti. Da quel momento in poi il loro rosso acceso campeggerà sui monumenti delle isole britanniche e di tutti i dominions.
Purtroppo quei papaveri saranno tantissimi, poiché la guerra ha un costo umano spaventoso. Fino al 1916 la macchina militare del Commonwealth non ha avuto bisogno della leva obbligatoria, ma dopo due anni di massimo sforzo anche i britannici decidono di ricorrere all’arruolamento di massa.
La guerra delle mine
Nella primavera del 1917, mentre i francesi attaccano i tedeschi sullo Chemin Des Dames, i britannici intensificano le operazioni militari nelle Fiandre. Dal momento che la forza delle armi difensive complica gli assalti, gli strateghi decidono di puntare sull’effetto-sorpresa.
Da mesi diverse squadre di scavatori australiani lavorano per realizzare tunnel sotterranei. Quando arrivano sotto alle postazioni tedesche, riempiono le gallerie di esplosivi, poi le fanno saltare. È la guerra delle mine, capace di travolgere i reparti e di cambiare il volto al paesaggio.
Nella notte fra il 6 e il 7 giugno scatta l’ora dell’attacco più pesante. Sul fronte di Ypres esplodono contemporaneamente diverse mine, uccidendo decine di tedeschi e arrivando a provocare piccole scosse di terremoto. Lo shock è consistente: i britannici si avvantaggiano della situazione e conquistano alcune posizioni, ma non riescono a sbaragliare definitivamente l’esercito germanico.
Quando le truppe tornano a trincerarsi, tutto intorno c’è un paesaggio ancora più devastato. Basta girare un po’ per i campi delle Fiandre e ci si imbatte in terreni punteggiati dalle esplosioni dei proiettili di grosso calibro. In tanti luoghi ci sono anche grandi stagni, quasi completamente naturalizzati. Sono i crateri delle mine. Alcuni si estendono per decine di metri e sono profondissimi, come quello che oggi è chiamato Pool of peace, la “piscina della pace”.
Il fango di Passchendaele
Dopo la sequenza delle mine, l’offensiva britannica prosegue sulle colline intorno a Passchendaele. Nell’estate del 1917 il generale Douglas Haig manda all’assalto le truppe delle isole e del Commonwealth, ma non ha fatto i conti con le piogge delle Fiandre. Il terreno diventa una trappola di fango. Gli attaccanti annaspano e i tedeschi tengono le posizioni grazie alle mitragliatrici. Migliaia di uomini cadono per conquistare poche decine di metri.
Per le forze armate britanniche Passchendaele diventa un sinonimo dell’inferno. Oltre agli inglesi, muoiono tantissimi canadesi, irlandesi e neozelandesi. Molti di loro risultano dispersi nel fango, altri subiscono lo strazio delle mitragliatrici. Riconoscere i corpi è molto difficile. Per questo, nel grande cimitero di Tyne Cot, due tombe su tre non hanno un nome. Sulla lapide bianca si legge semplicemente “a soldier of the Great War known unto God”, ovvero “un soldato della Grande Guerra, noto soltanto a Dio”.
Una guerra che non finisce
La Prima guerra mondiale si conclude nell’autunno del 1918, quando gli Imperi centrali collassano. La resa della Germania porta all’armistizio di Compiègne, firmato l’11 novembre. Le trincee si svuotano, ma la pace è ancora lontana. La smobilitazione degli eserciti richiede tanto tempo, così come la riconversione delle fabbriche. E poi come si può tornare alla normalità, dopo un conflitto del genere? Una generazione è segnata, se non perduta: si contano 10 milioni di morti e almeno altrettanti feriti, Ci sono profughi ovunque e molti paesi da ricostruire.
La ripresa è piena di incertezze, ma in Europa le potenze vincitrici partono da un punto fermo. Tutti vogliono punire la Germania. Il Belgio diventa lo Stato-vittima per eccellenza. Da quel momento in poi, per decenni, si racconterà al mondo come una nazione pacifica, ingiustamente aggredita da un nemico barbaro. In realtà sono passati soltanto 10 anni dalla piena annessione del Congo e molti responsabili dei crimini coloniali sono ancora presenti sulla scena. Tuttavia le memorie dell’invasione tedesca spazzano via le altre ombre. Anche il Comitato olimpico internazionale decide di organizzare i Giochi del 1920 ad Anversa come ricompensa “morale” al Belgio per i danni del conflitto.
Il bisogno di costruire una pace duratura genera la Società delle Nazioni, che si propone l’obiettivo di vigilare sugli equilibri tra le potenze per evitare nuove deflagrazioni. Tuttavia l’esplosione dei nazionalismi impedisce l’applicazione del diritto e complica la vita delle organizzazioni internazionali.
Il presidente statunitense Woodrow Wilson, pur essendo un convinto sostenitore della segregazione razziale, chiede l’autodeterminazione dei popoli e la libertà dei commerci. Tuttavia alle elezioni del 1920 la vittoria dei repubblicani dà un nuovo slancio all’isolazionismo. Gli USA smettono di interessarsi agli affari europei e si godono i “ruggenti anni Venti”. Le bolle speculative della loro economia finiranno tuttavia per esplodere con la crisi del 1929.
La pace si rivelerà dunque un fallimento. Le scorie della Grande Guerra riemergeranno negli anni Trenta, quando la miseria infiammerà la rabbia dei tedeschi e gonfierà le vele del nazismo. Nel 1939 esploderà un nuovo conflitto mondiale e il Belgio si troverà un’altra volta sulla rotta per Parigi. Per porre fine al nuovo incubo serviranno quasi sei anni e oltre 50 milioni di morti.
La memoria ovunque
Oggi il Belgio è uno dei Paesi più attenti all’eredità della Prima guerra mondiale. I campi delle Fiandre somigliano a un grande “museo della memoria a cielo aperto”. Lungo le strade si incontrano soprattutto famiglie del Commonwealth, che continuano a visitare i luoghi dove i loro antenati hanno conosciuto l’orrore della guerra di massa.
In Belgio capita di trovare anche appassionati di fatti bellici, che esplorano i campi di battaglia per soddisfare un feticismo militarista. Tuttavia la memoria somiglia più a un rispettoso omaggio che all’esaltazione di una vittoria. In questo stile emergono sia le esperienze dei britannici, che dopo le tragedie del 1914-1918 faranno di tutto per non imbarcarsi in una nuova guerra, sia le caratteristiche proprie del Belgio, una terra che oggi è un punto di contatto fra i popoli al centro dell’Europa.
Penso che questo viaggio nella storia della Prima guerra mondiale sia particolarmente adatto al nostro tempo. L’Europa di oggi ha parecchie cose in comune con gli scenari del 1914. La forbice tra i ricchi e i poveri si sta allargando, così come la sfiducia nella politica e nelle istituzioni. Si sentono sempre più spesso invocare soluzioni spicce e violente. Cresce l’idea che le nazioni siano comunità esclusive, fondate sull’esclusione degli altri. Guadagnano consensi le misure che separano “noi” da “loro”, come i muri e le omologazioni forzate. Studiare la storia aiuta a comprendere che queste dinamiche non sono affatto inedite. Capire il legame tra la crescita del nazionalismo e i drammi della Grande Guerra è dunque indispensabile per decifrare la realtà che ci circonda.
Come ricevere informazioni sulle nostre attività?
Per ricevere aggiornamenti su tutte le mie iniziative e su quelle di Paola Gemelli, è possibile iscriversi alla nostra Newsletter settimanale, in questa pagina.
Lascia un commento