“Racconterai davvero storie di profughi della Grande Guerra a Castelvetro? Quindi ne sono arrivati fino a qui?”
Me l’hanno chiesto in tanti, prima di cominciare il trekking storico Dal confine al fronte. La domanda non mi ha sorpreso: è normale che la valle del Panaro sia considerata lontana dal vivo del conflitto. Del Quindicidiciotto le famiglie ricordano i parenti partiti per la naja e gli sventurati che rimasero sul Carso. Ogni racconto è come prigioniero dei fatti d’armi, non si sgancia dal crepitare delle mitragliatrici.
(Ri)scoprire la storia
A pensarci bene, è tutt’altro che strano: le celebrazioni istituzionali e i programmi scolastici puntano i riflettori sulle trincee, come se l’unica guerra drammatica fosse quella dei belligeranti. Le vicende del fronte interno restano confinate nel buio. Tante storie di profughi e prigionieri, donne lavoratrici e bambini cresciuti in fretta si perdono ormai da tempo nel silenzio della memoria. Che è anticamera dell’oblio, ma anche un’opportunità per la ricerca.
Scavando negli archivi, ho trovato tracce che il conflitto totale ha impresso sulle comunità modenesi. L’idea di raccontare alcune di queste storie in un trekking mi è venuta dopo la narrazione-spettacolo sulla Grande Guerra nella valle del Panaro. Perché non provare ad abbinare alcuni degli eventi ai luoghi che li hanno visti accadere?
La sfida sembrava già di per sé interessante, ma la possibilità di entrare nel cartellone Oltre i confini mi ha stimolato a fare un passo in più. Perché non recuperare le vicende delle persone in fuga dalla guerra attraverso il Novecento di Castelvetro? Quest’idea ha tracciato un ponte tra la Grande Guerra e il nostro mondo, ancora lacerato dagli squilibri del 1914-1918. Non mi restava che aguzzare la vista per (ri)scoprire storie di profughi e cittadini di fronte ai drammi dei conflitti e agli imprevisti della natura.
Un viaggio nel tempo
Il cammino comincia di fronte al palazzo Rangoni. Davanti agli occhi il borgo di Castelvetro, nella mente le vicende di chi affronta la Grande Guerra senza conoscere granché dell’Italia. Dev’essere stata dura lasciare queste colline per andare al fronte. Ma forse è stato ancora più difficile per le genti del nord-est, costrette a fare fagotto prima che esplodessero i colpi delle artiglierie.
Fra il 1916 e il 1918 nell’ala sinistra del palazzo comunale, divisa in 51 piccole stanze, alloggia una numerosa colonia di profughi. Sono donne, vecchi e bambini; trentini, friulani e veneti, fuggiti da una guerra che gli ha strappato o addirittura distrutto le case. Dopo Caporetto in tutto il paese si contano 270 rifugiati, molti dei quali impossibilitati a mantenersi. Su di loro vigila il Patronato modenese: intanto il Comune garantisce la tessera annonaria ai 186 più bisognosi, salvandoli dalla fame. Degli aspetti morali si occupa la maestra Rosina Rosignoli, che distribuisce a grandi e piccini libri per trascorrere meglio il tempo.
Quanta incertezza, in quel 1918. E quanta rabbia divampa, dopo che la pace non mantiene le promesse. I nazionalisti gridano alla vittoria mutilata, i contadini invocano la riforma agraria, gli operai e i braccianti pretendono il lavoro. Invano. E allora si profila una nuova guerra civile tra chi sogna la rivoluzione e chi la teme. Gli interessi di classe si ammantano di miti e retoriche, impugnando bandiere rosse e identità patriottiche. Finché i manganelli degli squadristi aprono la strada alla “Marcia su Roma”.
Neppure il fascismo, però, risolve le contraddizioni lasciate aperte dalla Grande Guerra. Mussolini costruisce la dittatura e spera di plasmare l’uomo nuovo, vedendo l’Impero nel destino d’Italia. Qualcuno parte anche da Castelvetro per dare forma alle spedizioni coloniali. Qualcun altro, come Ettore Cropalti, se ne va perché il regime non crea un ambiente adatto agli anarchici. Poi la “nazione guerriera” del Duce si scontra con la realtà del secondo conflitto mondiale. E tutto precipita.
Storie di profughi tra guerre e alluvioni
Nel 1944 a Castelvetro si trovano 1.674 profughi a fronte di 8.903 abitanti. Molti sono scappati dalle province emiliane per paura dei bombardamenti aerei, altri sono sinistrati per davvero. Vengono dal Mezzogiorno, dove la guerra è arrivata prima, e sanno che nessun posto è davvero sicuro.
Non sbagliano, perché la guerra è diventata totale. L’occupazione nazista e la “rinascita” del fascismo proiettano la contesa tra le case dei civili, mentre le aviazioni alleate continuano a colpire i punti nevralgici del territorio: spesso a farne le spese sono luoghi vicini alle strade, dove vivono o lavorano persone comuni. Come l’ammasso del grano di Castelvetro, semi-distrutto dal bombardamento del 22 febbraio 1945, che lascia sotto le macerie due morti e provoca sette feriti.
Quando la guerra finisce, la comunità s’impegna nella ricostruzione. Sono anni di entusiasmi e difficoltà, slanci vitali e conflitti politici. A Castelvetro e in provincia di Modena la disoccupazione è una piaga pulsante di tensioni: non è semplice trasformare le violenze della guerra nel confronto democratico tra le parti. Eppure, nella maggior parte dei casi, ci si riesce. I problemi non abbattono gli animi, ma diventano stimoli d’azione.
È in questo contesto che nella seconda decade del novembre 1951 irrompe l’alluvione del Polesine. Dal modenese parte una poderosa organizzazione di assistenza, condotta dal PCI in polemica con i rappresentanti del governo democristiano. A Castelvetro il Comitato cittadino di solidarietà agli alluvionati raccoglie 331.000 lire, 4.000 capi di abbigliamento, 94 quintali di grano e 3 quintali di mais. Diverse famiglie di lavoratori si offrono per ospitare chi ha perso la casa e gli averi. La piazza accoglie così altre storie di profughi, fuggiti dalla furia delle piogge autunnali.
Capire il presente
Il viaggio finisce con la scala che porta in piazza Roma, dove si staglia un’installazione di tende e fotografie. È Scappare la guerra. Racconta in silenzio un viaggio al confine tra Grecia e Macedonia. Per far sentire ciò che accade lungo la rotta balcanica servono l’occhio di Luigi Ottani e le parole di Roberta Biagiarelli. Nel campo della dama vivente s’incrociano sguardi che parlano dell’uomo e della guerra. Perché a oltre cent’anni da Caporetto i conflitti non “perdono il vizio” di uccidere e sradicare le persone.
Oggi guardare quei volti ci serve, perché questo nostro mondo continua a sanguinare dalle ferite del 1918. Siria e Iraq, Israele e Palestina, Ucraina e Russia, Bosnia e Serbia. Conflitti aperti e focolai latenti. Questioni complesse, che richiedono il silenzio dell’approfondimento. È proprio in casi del genere che la Public History fornisce un aiuto prezioso per capire il presente. Una sfida difficile, ma ineludibile.
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