La valle del Panaro è l’angolo d’Emilia in cui sono diventato uomo. Una terra di paesaggi dolci e sapori intensi, campanili amati e comunità orgogliose. Lì, quando andavo ancora all’università, ho conosciuto il peso delle memorie e il vuoto degli oblii. Perché certe pagine della storia sembrano scivolate via, come se non fossero trascorse? Me lo sono chiesto tante volte, ripercorrendo il Novecento per le strade che mi hanno visto crescere. Che cos’è stato vivere gli snodi del “Secolo Breve” tra queste campagne un po’ in collina e un po’ in pianura?
La valle del Panaro e la memoria: domande e ricerche
Quelle domande mi accompagnano ancora nelle ricerche. Da qualche tempo, ormai, mi portano dritto alla fucina del nostro mondo: la Grande Guerra. Nel senso comune della sua gente, la valle del Panaro sembra averla vissuta solo da lontano. Un’idea legittima: fra il 1915 e il 1918 i tre fronti dello scontro tra Italia e Impero austro-ungarico non dilagano fra i paesi e le comunità d’Emilia.
La memoria non tituba: il primo conflitto mondiale è una storia di fanti contadini strappati alle famiglie. Porta dolori e lutti, ma non devastazioni e stragi. La rotta di Caporetto è senza dubbio una brutta storia, ma mai quanto l’altra tragedia del Regio Esercito, quella dell’8 settembre 1943. Nel 1917 i tedeschi non sono nazisti e si fermano sul Piave: la valle del Panaro non la vedono neppure col binocolo.
Con questi “ingredienti di memoria” è normale che la vita quotidiana delle comunità locali durante la Prima guerra mondiale si perda nell’oblio. Non c’è gloria né epica nell’attesa di notizie. E non è neppure conveniente strombazzare alla “Vittoria”, di fronte alla carneficina uscita dalle trincee. Ricordare con troppo ardore Vittorio Veneto sarebbe sconveniente, visto che il fascismo ha colonizzato il “mito della Grande Guerra”.
Eppure, quando la curiosità innesca le domande giuste…
Qualcosa si muove. Non posso studiare la Prima guerra mondiale con lo stesso approccio utile per la Resistenza, ma perché non rispolverare i presupposti della ricerca che ha generato Memorie sepolte? Le storie che m’interessano si nascondono lontano dalle trincee. Devo “scavare” tra le carte di altri archivi, sfogliare le pagine della vita quotidiana, avvicinarmi alle persone.
Appena mi sgancio dai cliché della memoria, neanche a farlo apposta, ecco il primo ritrovamento. Me lo porta un amico, Fausto Corsini, incontrato lui pure per caso lungo il percorso della Public History. Nelle Casse ritrovate dorme la storia di Medardo Venturelli, un fante contadino travolto prima dalla leva militare e poi dalla guerra. Con la semplicità di un illetterato affida alla penna la speranza di restare in contatto con la vita, l’amore e il mondo di prima.
Alessandria, 12 marzo 1916
Idolo dei miei pensieri
[…] Le novità di qui non saprei che dirti altroche della miseria, si vede giorno per giorno andare i bambini domandando carità anche dà noi, non si può più bere un bichier di vino che si paga un occhio di bue, insomma è una cosa che fa terrore, lasiando questo saluterai tuo fratello e familia. E con i più affettuosi saluti e caldi baci mi dico per sempre il tuo amanteMedardo Venturelli
Dopo Caporetto: soldati e profughi nella valle del Panaro
Quando finisco di sfogliare l’epistolario di Medardo Venturelli, capisco che il fante-contadino non mi può accompagnare sulla rotta di Caporetto. Il 26 agosto 1917 Medardo muore come il milite ignoto, sfigurato dalle mitragliatrici sull’altopiano della Bainsizza. Poco meno di due mesi dopo, la dodicesima battaglia dell’Isonzo inverte il copione delle prime undici: i tedeschi si uniscono agli austriaci per attaccare e riconquistare spazio verso Gorizia. In realtà non avanzano, dilagano. Nei cinque mesi successivi oltre seicentomila persone lasciano le proprie case in Friuli e in Veneto per mettersi in salvo altrove. Sono italiani, la guerra e la paura li rendono profughi.
Dove vanno? Rispondere a questa domanda è una missione che m’impegna ormai da qualche mese nella rete degli istituti storici emiliano-romagnoli. Daniele Ceschin, massimo studioso dell’argomento, afferma che nel novembre del 1918 in Emilia-Romagna i profughi sono 67.650. In quei giorni Modena se ne contano ancora più di 9.000, ma il loro numero è stato molto più elevato. Per non parlare dei tanti che sono passati in treno, diretti al Centro e al Sud. E di quelli che dai vagoni sono fuggiti per vivere in semi-clandestinità…
Il 6 e il 7 dicembre a Bologna ricostruirò le loro vicende tra l’orizzonte regionale e quello nazionale durante il convegno L’anno di svolta e il fronte interno. Nel frattempo, per mettere ordine alle idee e dare spazio alle ricerche locali, mi metto in gioco con la Public History. Dopo il successo di Sassuolo sulla rotta di Caporetto, è il momento di tornare nella valle del Panaro per riscoprire storie e “spettinare” memorie.
La Grande Guerra nella valle del Panaro: una narrazione-spettacolo
Nell’autunno del 1917, mentre l’Emilia-Romagna si riempie di ospedali militari e campi di riordino, “tirare la cinghia” diventa una necessità per tutti, profughi e cittadini. Anche le (rare) proteste contro i massacri del fronte sono ormai soffocate da una gestione dell’ordine pubblico che subordina l’assistenza ai poveri alla sicurezza nazionale.
Capire quei fatti aiuta a comprendere la quotidianità della guerra. Le misure adottate dalle autorità per affrontare le crisi sono state davvero efficaci? Quali effetti hanno avuto sul Novecento i problemi sociali divampati alla fine delle ostilità? Che cosa accade a una comunità quando la guerra tra poveri lacera le relazioni tra le persone?
Queste domande sono i pilastri della narrazione-spettacolo che proporrò sabato 2 dicembre alle 19 presso il Centro culturale di Marano sul Panaro. Per l’occasione il Comitato per la memoria #UnioneResiste, formato dalle sezioni ANPI di Castelvetro, Marano sul Panaro, Spilamberto e Vignola, propone un “aperitivo storico”. Perché la Public History cresce dove c’è voglia di condividere esperienze, memorie e ricerche. Come nella valle del Panaro.
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