Fra il 6 e il 7 dicembre 2017 gli studi storici sulla Prima guerra mondiale in Emilia-Romagna hanno fatto registrare un passo in avanti. A Bologna si è infatti tenuto il convegno L’anno di svolta e il fronte interno: il 1917 fra dimensione regionale e nazionale.
Nella suggestiva Sala dello Stabat Mater, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio, gli Istituti storici emiliano-romagnoli hanno illustrato i risultati delle proprie ricerche sulla Grande Guerra. A una nuova interpretazione della storia locale si sono aggiunte conoscenze rilevanti su temi non ancora affrontati dagli studiosi.
Un’occasione per gli specialisti del settore, ma anche una sede particolarmente adatta a una discussione sul ruolo sociale della storia. Non è un caso che, nella tavola rotonda conclusiva, ci sia stato spazio anche per la Public History.
La Prima guerra mondiale in Emilia-Romagna?
Com’è stata vissuta la Prima guerra mondiale in Emilia-Romagna? Questa domanda, rimasta senza risposta per decenni, orienta dal 2014 i lavori e le ricerche degli Istituti storici della regione. Recuperare la dimensione del quotidiano è fondamentale per allargare le conoscenze sulla Grande Guerra.
Fino alla fine degli anni Sessanta, mentre gli storici ricostruivano le vicende militari e politiche, le comunità alternavano le commemorazioni dei caduti all’oblio del quotidiano. Nessuno sembrava dare importanza alle esperienze dei civili o alle retrovie dei fronti. Tutte le attenzioni andavano ai combattenti e alla complessità dei sistemi militari.
A partire dagli anni Settanta gli sviluppi della storia sociale hanno aperto nuove prospettive d’indagine. Non solo generali e governanti, economisti e soldati: si studiano esperienze familiari e ambienti di lavoro, approcci di genere e scritture popolari. Nei decenni successivi riemergono da un lungo silenzio anche i “vinti” del conflitto: disertori, prigionieri e profughi.
Perché non provare dunque a cambiare ulteriormente prospettiva? Raccontare la Prima guerra mondiale in Emilia-Romagna aiuta a non fossilizzarsi sulla solita storia di battaglie e diplomazie. Una serie di ricerche originali sulla realtà regionale aggiunge un tassello importante alla già cospicua storiografia sul 1914-1918. Bisogna, però, mettere le nuove conoscenze a sistema. Quale migliore occasione di un convegno dalla portata nazionale?
La storia locale e la Grande Guerra
La prima sessione dei lavori è presieduta dalla professoressa Giovanna Procacci, che mette subito in evidenza la specificità dell’Emilia-Romagna. Terra “rossa”, come la Toscana. Terra di prima retrovia, problemi alimentari e proteste contro la guerra.
È il professor Carlo De Maria, organizzatore del convegno, a inquadrare gli studi in una nuova prospettiva della storia locale. I Comuni possono diventare osservatori privilegiati della Prima guerra mondiale in Emilia-Romagna e in Italia: nel loro piccolo affrontano infatti problemi assai complessi, rivelandosi protagonisti degli eventi non meno delle istituzioni statali. Approfondire le ricerche negli archivi storici comunali permette di collegare ai territori le questioni che emergono sullo scenario nazionale, valutandole in una scala ridotta e nelle specificità dei contesti locali.
Analizzando il ruolo delle città e delle province emiliane nell’economia di guerra, il professor Fabio Degli Esposti parla di un reciproco condizionamento fra centro e periferia. Le scelte dei municipi producono effetti sullo Stato e viceversa, rendendo impossibile una lettura univoca del cambiamento dall’alto o dal basso. Crescono gli attori, aumenta la complessità. È il fascino della Grande Guerra.
La politica e la Prima guerra mondiale in Emilia-Romagna
Mirco Carrattieri prosegue i lavori con una relazione sul contesto politico. Anche le sue indagini fanno emergere l’interesse e la problematicità della prospettiva emiliano-romagnola. Si può prendere come punto di osservazione una regione che non è in realtà tale fino al 1970? Meglio partire da aree più ristrette e omogenee: Emilia occidentale, Emilia centrale, Bologna-Ferrara e Romagna. In questo modo è possibile far emergere le peculiarità di ogni provincia, dal riformismo socialista reggiano alla forza dei repubblicani romagnoli. Senza dimenticare la necessità di proiettare lo sguardo al dopoguerra: se fosse stato il fallimento delle proposte patriottiche liberali, e non la minaccia della rivoluzione, ad aprire la strada al fascismo?
Pensieri e rivolte: donne e giovani nei movimenti di protesta
L’impatto sociale delle idee politiche caratterizza anche il contributo del professor Luca Gorgolini. Il 1917 è l’anno in cui il fronte interno rischia di cedere. Le proteste e gli scioperi contro la guerra, già crescenti dal 1915 al 1916, raggiungono livelli che preoccupano le autorità dello Stato. Protagonisti diventano sempre più spesso le donne e i ragazzi: la Federazione giovanile socialista si distingue per massimalismo, contrapponendosi decisamente a ogni sforzo in direzione della guerra. I rapporti tra i prefetti e i sindaci del socialismo riformista, migliorati dall’inizio della guerra, rischiano di compromettersi. Quando arriva la rotta di Caporetto, divampa la tentazione di liquidare tutti i pacifisti come disfattisti e nemici interni. Alle parole di Gorgolini si uniscono le considerazioni della professoressa Procacci: se fosse stata quest’atmosfera repressiva, unita al rancore delle classi medie impoverite, ad alimentare lo squadrismo fascista?
Un caso di studio: il cattolicesimo faentino
Questi punti interrogativi della politica si riaprono quando Laura Orlandini illustra il “caso” del cattolicesimo faentino. In una diocesi spaccata tra la devozione di Faenza e l’anticlericalismo della pianura si consuma uno scontro che spazia dalla stampa alla teoria politica. Dall’autunno del 1915 all’estate del 1917 il giornale pacifista Savonarola contesta l’adesione della Lega democratica nazionale alla guerra italiana. Come conciliare la fedeltà al papa e la partecipazione alla vita politica italiana, l’interventismo e il Vangelo? È possibile proporre un messaggio di pace senza incorrere nell’accusa di difendere l’Impero austro-ungarico? Domande di fondo, sollevate da un interessante caso di studio.
Sbandati e prigionieri: i problemi del Regio Esercito dopo Caporetto
Fabio Montella apre la seconda sessione del convegno, presieduta dal direttore dell’Istituto Parri Luca Alessandrini, con una relazione sull’arretramento del fronte dopo Caporetto. Lo storico mirandolese ricostruisce gli eventi tramite mappe tridimensionali di Google Earth. Lo spazio virtuale restituisce gli spostamenti delle truppe e i luoghi dove furono allestiti i campi di riordino. Nel contempo la voce di Montella fa riemergere le parole dei processi contro disertori e sbandati. Il pubblico s’immerge nel racconto, confermando l’efficacia delle tecniche narrative della Public History.
Sonia Residori esplora invece le vicende degli altri “vinti” militari: i prigionieri di guerra. Negli anni del conflitto l’Emilia-Romagna “accoglie” centinaia di soldati austro-ungarici, catturati nel corso dei combattimenti. Dove rinchiuderli? Come mantenerli, nel rispetto delle convenzioni internazionali? Che cosa dar loro da fare, in un contesto caratterizzato dal bisogno di manodopera e dalle tensioni sociali? Fra i tanti nodi trattati, la relazione fa emergere quali lavori furono affidati ai prigionieri e quali tensioni li contrapposero ai civili.
Le retrovie e il problema dei profughi
A me tocca il compito di inquadrare le retrovie e il problema dei profughi. La ricerca – prodotta nel gruppo di lavoro degli Istituti storici di Piacenza, Parma, Modena e Ferrara – fa emergere l’importanza dell’Emilia-Romagna nella gestione dei civili in fuga dalla guerra.
Mi occupo di queste vicende dalla scorsa primavera. La ricerca è fin troppo coinvolgente, perché le parole delle fonti sembrano spesso tratte dal mondo di oggi. Ho già avuto il piacere di raccontare alcuni aspetti del problema a Sassuolo e nella valle del Panaro. In entrambi i casi la Public History ha unito le comunità nella ricostruzione del loro passato. L’intervento al Convegno richiede invece una visione d’insieme della realtà regionale prima e dopo la svolta del 1917.
Una bella sfida, da accogliere a viso aperto, partendo dalle tracce di chi ha già trattato il tema dei profughi. Devo alla lettura dei saggi di Daniele Ceschin, Bruna Bianchi, Paolo Malni, Luciana Palla, Marta Verginella, Francesco Frizzera, Alberto Molinari e Fabio Montella la solidità dei punti di riferimento storiografici.
Dalla guerra europea alla rotta di Caporetto
Fin dall’estate del 1914 le città e le province accolgono i rimpatriati e i “fuorusciti”, italiani per cittadinanza o per senso di appartenenza che si rifugiano nel territorio nazionale. Quando il Regio Esercito comincia le operazioni militari, diversi abitanti dell’area del fronte vengono trasferiti altrove. Alcuni profughi si sistemano autonomamente, altri sono raggruppati nelle colonie: quelli giudicati politicamente pericolosi vengono internati e sottoposti a controlli polizieschi.
Pianello Val Tidone, San Lazzaro Parmense, Villa Forni a Cognento, Vergato. Nell’autunno del 1917 i luoghi di ricovero sono diffusi in tutta la regione. A Bologna il Comitato degli irredenti aiuta decine di famiglie, legando il sostegno alle idee patriottiche. Anche i Comitati di assistenza civile intervengono a lenire i disagi per favorire la compattezza del fronte interno.
Poi arriva Caporetto e i treni si trasformano in fiumi di gente. Donne, anziani e bambini si riversano sui vagoni e nelle strade, sperando di attraversare in tempo i ponti. Da Bologna in un mese transitano 100.000 persone, da Modena 30.000. Non c’è da sorprendersi se i cronisti usano termini biblici per descrivere questo esodo. La riviera romagnola arriva a ospitare oltre 17.000 profughi veneti, ma anche le altre province conoscono i drammi di chi ha perso tutto. Nel novembre del 1918 “gli esuli di Caporetto” in Emilia-Romagna sono ancora più di 78.000.
«Gli inconvenienti d’ordine morale traggono motivo dalla presenza di numerose persone di origine non bene controllabile, e di donne equivoche a cui la presenza di profughi dà buon pretesto per confondersi con essi»
1 dicembre 1917 – L’Ufficio Comando della Scuola Bombardieri al Prefetto di Modena
Una relazione di mezz’ora non esaurisce i termini del problema, ma può tracciare la strada verso la stesura di un saggio. La chiusura del mio intervento delinea dunque la prossima sfida: la pubblicazione degli atti del convegno è prevista per l’estate del 2018.
Ricerca storica e Public History
La terza sessione si svolge nella modalità della tavola rotonda. Carlo De Maria, Luigi Tomassini, Luca Alessandrini, Giovanna Procacci, Patrizia Dogliani e Mirtide Gavelli dialogano sui temi del convegno. Gli stimoli sono molteplici e chiamano in causa a più riprese i relatori delle prime due sessioni. Riemergono il nodo dei giovani e la questione dei profughi, le difficoltà degli amministratori riformisti e l’ascesa delle idee politiche estreme.
Il confronto fa emergere un’idea largamente condivisa, delineata efficacemente dalla professoressa Procacci. Una buona ricerca storica sa attirare l’attenzione e la curiosità del pubblico, perché risponde a domande che sorgono dall’esperienza del vissuto. Compito dello studioso è guidare colleghi e non addetti ai lavori attraverso la profondità del passato, delineando con rigore gli scenari della ricostruzione critica.
Se a questo metodo si aggiungono i linguaggi delle arti umane e il coinvolgimento del pubblico nel processo che porta alla ricostruzione storica, ecco servita la ricetta della Public History.
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