“SIPE Spilamberto”. Dove il Panaro lascia le colline per dissetare la pianura, queste due parole hanno scandito il ritmo del Novecento. Quando l’antico polverificio si trasforma in fabbrica di guerra, la produzione di massa trasforma il territorio e la comunità.
La metamorfosi comincia nel 1915. Mentre le trincee della Prima guerra mondiale segnano e insanguinano l’Europa, il Regio Esercito italiano si mobilita. La nazione entra nel conflitto, esige le energie degli uomini e chiede nuove armi. Spilamberto e la SIPE tornano quasi all’improvviso al centro dell’attenzione. La posta in gioco, però, è molto più alta rispetto al passato. Gli operai non preparano polveri esplodenti per spingere il ducato estense verso il Tirreno: ora servono bombe a mano per i fronti del Carso e del Trentino.
Ma chi le produce, queste bombe a mano?
Diversi lavoratori ricevono la cartolina-precetto e devono partire per il fronte. All’inizio vengono spediti in trincea anche gli artificieri e gli operai specializzati! Passano alcuni mesi prima che emerga la necessità di riportarli in fabbrica. Non pochi di loro, però, riempiono gli elenchi delle perdite. Bisogna rimpiazzarli in fretta: formare nuovi maghi delle polveri è difficile in condizioni normali. Quando la guerra chiama, la faccenda diventa un’impresa…
Più passa il tempo, più c’è bisogno di produrre. Nel 1916, 20.000 bombe al giorno non bastano, ne servono 30.000. Arriva un tecnico dal Belgio, ma non è sufficiente nemmeno lui. Ci vuole più manodopera.
Gli uomini non bastano? Dentro le donne! “Costano” meno, hanno dita sottili e non protestano. Lavorano eccome: quando padri, mariti e fratelli sono al fronte, in casa c’è bisogno di soldi. La direzione dimentica le remore dei “bacchettoni” e le assume. Dopotutto, ciascuno deve concorrere come può allo sforzo bellico, le autorità lo vanno ripetendo ogni giorno…
Già, lo sforzo bellico. Nel 1917 sembra una fatica di Sisifo. Tanti si lamentano e a settembre qualcuno sbotta anche alla SIPE. Gli operai bussano alla porta della Camera del Lavoro per avere una tutela. Vogliono l’aumento del salario, ma la proprietà fa orecchie da mercante. Quando interviene il Comitato di Mobilitazione di Bologna, però, le buste paga diventano più pesanti.
“Ci auguriamo che questo insegni a tutti gli operai indistintamente che lavorano negli stabilimenti ausiliari a seguire l’esempio dei compagni della SIPE a reclamare attraverso l’organizzazione di classe un più umano trattamento”, scrivono i compagni socialisti del Domani.
S’illudono. Come molti spilambertesi. Di lì a pochi giorni Caporetto trasforma il modenese in una zona di guerra. Quell’autunno somiglia all’esplosione di un nucleo radioattivo: i suoi effetti si protraggono nel tempo. Disciplina ferrea e speranze rivoluzionarie, nazionalismo militante e coscienza di classe, difesa del privato e partecipazione pubblica. Opposti così estremi non si conciliano: prima o poi finiscono per scontrarsi.
Un anno dopo la guerra si conclude senza finire. La Conferenza di pace, le grida alla “vittoria mutilata”, la forza dei socialisti, il “Biennio Rosso”, le paure dei possidenti, i fascisti, i manganelli, le botte. La SIPE e Spilamberto non sanno che il 1921 è l’anticamera della lunga notte emiliana. Un buio che vede crescere il regime e la fabbrica, che arma tutte le guerre fasciste, dalle spedizioni coloniali alla Campagna di Russia.
Fino a quando le storie di guerra prendono i colori della Resistenza.
Testo di Daniel Degli Esposti
Foto di Paola Gemelli, scattate in occasione del trekking storico “Riscopriamo la Sipe 1914-1918“
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