Perché parlare di storia dello sport nel fascismo proprio l’8 marzo, che è la Giornata Internazionale della Donna? Perché lo sport offre spesso una prospettiva utile a svelare il vissuto dell’epoca in cui è immerso. Dai campi e dalle palestre emergono storie di oppressione e di lotta, di omologazione forzata e di ribellione viva. Ne ho raccontate alcune durante una lezione di approfondimento al Liceo Leonardo da Vinci di Casalecchio di Reno. Hai cliccato sul link, hai letto il post e vorresti saperne di più? Sei nel posto (e nell’articolo) giusto!
La Giornata internazionale della donna
Dal 1945, quando la Seconda guerra mondiale è ancora in corso e i tedeschi occupano il nord della penisola, le italiane ricordano ogni 8 marzo le lotte per l’emancipazione femminile, proclamando la necessità di proseguire le proprie rivendicazioni. Dal 1946 sotto il cielo dell’Italia liberata sventolano anche le mimose. Il giallo del fiore-simbolo rimanda all’atmosfera del secondo dopoguerra, quando le comunità cercano di guardare oltre le macerie per costruire un Paese nuovo.
Molte persone sentono di poter salire i gradini della scala sociale. La voglia di emancipazione non alberga solo nei cuori dei giovani partigiani, poiché tante donne si sono battute per sconfiggere il fascismo e costruire le condizioni della propria libertà. Da dove nasce, però, questo desiderio di affermarsi come protagoniste sulla scena pubblica? Come ha potuto svilupparsi, in un’Italia prima dominata da Mussolini e poi occupata dai nazisti? Rispondere a queste domande è difficile: noi storici sappiamo bene che la complessità degli eventi genera effetti sorprendenti. A volte, per capire vicende così complesse, dobbiamo inquadrarle da un’angolazione particolare e, da lì, ragionare per esteso.
Le donne e la storia dello sport nel fascismo
Il fascismo delle origini è un movimento formato da maschi: esalta la violenza, coltiva la guerra e impone il dominio attraverso il carisma. Il genere dominante è costruito sull’immagine dell’Ardito, un soldato scelto e pronto per l’assalto alla baionetta, e s’incarna nello squadrista. I vincoli della società borghese cadono sotto i suoi colpi, ma le donne non riescono ad afferrare le chiavi delle proprie vite: le contadine e le operaie che fra il 1915 e il 1918 hanno sostituito i soldati sul lavoro devono cedere il posto ai mariti, ai fratelli, ai figli.
La rivoluzione del littorio assorbe pensieri conservatori, mantenendo ben saldo il potere maschile: quanto vogliono, i reazionari, che le impiegate e le tranviere tornino semplicemente figlie e mogli! Quanto desiderano, gli uomini, che le sorelle non occupino le loro poltrone! Nelle pagine degli ideologi più influenti, l’«altra metà» del cielo fascista è un «angelo del focolare», pronto a riempire di nuove vite la casa e la nazione. Per essere una madre feconda, la donna non deve inseguire i sogni del lavoro o le immagini della moda: le basta «una sana e robusta costituzione», mescolata a liberali dosi di obbedienza.
Lo sport e la “nazione guerriera”
Il lavoro nei campi è la palestra del «sì» coniugale, ma la lezione della modernità insegna che le fatiche domestiche e la sottomissione non assicurano la salute delle donne. C’è bisogno di un’attività che plasmi un fisico più forte senza incoraggiare l’anima nella voglia di libertà. Insomma, la storia dello sport nel fascismo propone un allenamento per le sofferenze, che sviluppi l’attitudine al sacrificio lasciando aperto uno spiraglio allo svago. Il regime fascista cerca una risposta nell’intersezione fra l’eredità dei romani e il mondo anglosassone, privato della voce dal nazionalismo linguistico: perché non tentare con il connubio fra ginnastica e sport? Perché non recuperare le esperienze educative che la professoressa di educazione fisica Ida Nomi Pesciolini ha proposto alle ragazze senesi della polisportiva Mens Sana?
L’educazione fisica è un pilastro delle politiche giovanili mussoliniane. Gerarchi, ministri e giornalisti esaltano i trionfi della «nazione sportiva», ma non ne rivelano l’obiettivo di lungo termine. Mentre calciatori, ciclisti e atleti olimpici difendono i colori di Casa Savoia e scrivono la storia dello sport nel fascismo, le nuove generazioni si preparano per formare la «nazione guerriera». Da una parte i «balilla» e gli «avanguardisti» faticano sui campi di gara per vincere su quelli di battaglia, da un’altra – rigidamente separata da quella maschile – le «piccole italiane» preparano i corpi a offrire nuovi soldati alla patria. Secondo parecchi educatori da varie zone del mondo, le ragazze non hanno bisogno di agonismo: nell’olimpo dello sport la gloria insegue Marte ed esclude Venere, che nelle rassegne a Cinque Cerchi entra soltanto di nascosto. L’educazione fisica fascista non rompe il modello dell’esclusione: mentre i ragazzi giocano e competono, le ragazze si muovono e si allenano.
Educare le donne a essere madri
Le educatrici mettono al bando i contatti fisici e i look “provocanti”, poiché lo sport femminile è uno strumento a sostegno della fertilità. Se la responsabilità di costruire una famiglia ricade sull’uomo, costretto a pagare la tassa sul celibato se non si è sposato dopo il compimento dei 26 anni, la maternità e la cura dei figli sono doveri delle donne. Per la massa delle italiane è meglio non perdere tempo con sogni di vittoria o speranze olimpiche. I trionfi dell’atleta bolognese Ondina Valla a Berlino 1936 servono a riempire le copertine e gli articoli delle riviste con immagini esaltanti, mentre la realtà del quotidiano racconta gli sforzi per il miglioramento della «razza». In quest’ottica, che esclude chiunque abbia un sangue diverso da quello italiano, le ragazze sono oggetti riproduttivi in potenza: divenute adulte, devono adempiere alla loro missione di mogli obbedienti e madri prolifiche. Dopo gli anni dell’educazione negli enti morali del regime, sono destinate a vivere in casa, non a scrivere la storia dello sport nel fascismo. Quelle che riescono a mantenere un lavoro vengono additate come esempi non degni d’imitazione, poiché allungano oltremodo la fase extra-domestica della loro vita.
Quando la guerra mondiale e l’occupazione nazista fanno crollare il regime, emerge la contraddizione che il sistema fascista ha imposto alle ragazze italiane: com’è possibile obbligare le generazioni a ricevere un’educazione collettiva al di fuori delle famiglie e costringere poi le singole persone a chiudersi nei propri nidi, una volta raggiunta la maturità? È proprio il ricordo del periodo formativo a risvegliare in alcune donne il desiderio di uscire dal piccolo mondo familiare: tolta la superficie dell’ideologia fascista, lo slancio all’auto-emancipazione può assumere altri connotati, che per qualcuna diventano quelli della lotta contro il nazismo e la Repubblica di Salò.
Neppure quella scelta, né quella Liberazione, tuttavia, sgombrano il campo dalle disuguaglianze: finisce l’orrore dell’Asse, ma nel mondo – e nello sport – restano discriminazioni profonde. Un «soffitto di vetro» continua a precludere alle donne il ricongiungimento con i loro fratelli sulla linea di partenza della vita. Fino a quando tutti non potranno scattare dagli stessi blocchi, avere le medesime possibilità di carriera e meritare identici guadagni, l’8 marzo continuerà ad appartenere al presente e non diventerà storia.
Per saperne di più
Per approfondire la storia raccontata in questo post, consigliamo la lettura di alcuni libri, disponibili per l’acquisto online:
- Sport e fascismo, a cura di Maria Canella e Sergio Giuntini
- Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, di Patrizia Dogliani
- Le donne nel regime fascista, di Victoria De Grazia
- Modernità totalitaria. Il fascismo italiano, a cura di Emilio Gentile
- Gli atleti del duce. La politica sportiva del fascismo 1919-1939, di Enrico Landoni
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