«La mattina della vigilia di Natale la neve era così alta che dall’Agnese dovettero far la rotta per uscire di casa. Anche i tedeschi lavoravano a liberare il cortile. Erano rossi, allegri, avevano bevuto molto cognac. In cucina le ragazze facevano la sfoglia e i dolci. Dicevano: “Si deve capire che è festa anche se siamo in guerra”. Andavano di qua e di là, al pozzo a prendere l’acqua, dai vicini a farsi imprestare le pentole e le padelle; passavano ridendo davanti alla porta dell’Agnese, guardavano nello stanzone, scuro e triste come gli altri giorni. Lei non faceva niente di differente, preparava il solito pasto, trafficava nel fondo tra i sacchi, dura e silenziosa come sempre da quando era venuta.»

È la vigilia di Natale del 1944 in una frazione delle valli di Comacchio. Agnese, la protagonista del romanzo di Renata Viganò, si è da qualche tempo sistemata nella rimessa di una casa di contadini, lungo la strada provinciale. Ci abita una famiglia «non buona né cattiva», con quattro ragazze, che non vuole «mettersi nei guai». Come nel resto della frazione, nessuno ha scelto di impegnarsi nella lotta partigiana.

La casa dove Agnese viveva fino a un anno prima non c’è più, bruciata per vendetta dai soldati tedeschi che da mesi hanno occupato l’alta Italia. Con lei, in quello stanzone, vivono il «figlio» e il «cugino», anche loro «sfollati»: la mattina partono per andare a lavorare, con le carte dell’organizzazione Todt, e tornano la sera. Almeno per quello che ne sanno gli uomini della compagnia tedesca di sussistenza che vive lì, nel resto della casa, insieme alla famiglia di contadini.

«Si sbrigò presto con le sporte di roba per la “caserma”; le donne avevano fretta, anche loro volevano fare qualcosa per il Natale. Le aiutarono anche il Comandante e “La Disperata”: fecero un paio di giri da casa al canale con le sporte piene. Portarono con la carriola anche una damigiana di vino. A mezzogiorno avevano finito, si misero a mangiare. “Forse Clinto non può venire”, disse il Comandante. Invece Clinto venne di corsa, col cappotto tutto bianco di neve. Disse che aveva lasciato Tom al comando della “caserma”, che i partigiani erano calmi. “Però”, aggiunse, “se continua a nevicare è un disastro”.»

Lo stanzone di Agnese è la sede di un comando di brigata partigiana, ma questo lo sanno in pochi. Non è una confidenza da fare alla gente, «paurosa e tarda», della frazione, né alla famiglia che ha affittato la rimessa. Per quell’affitto è stata pagata bene, sperando di non ricevere «domande difficili». Le donne, le staffette di cui Agnese è l’organizzatrice, hanno fretta in quella giornata prefestiva, così l’aiutano anche il «cugino» (in realtà il Comandante di brigata) e un giovane che si presta come staffetta con il nome di battaglia “La Disperata”. Bisogna far avere i rifornimenti a 50 partigiani, nascosti e ammassati in una casa isolata, la «caserma». Dopo che i soldati tedeschi hanno allagato le valli, ci si arriva solo in barca.

«Il Comandante, che stava da un’ora seduto proprio vicino alla stufa “a far provvista di caldo”, diceva, si alzò, infilò il suo pastrano cittadino troppo leggero per il gelo della valle, disse:
“Andiamo? Chissà poi se viene, quello là, con tanta neve”.
Clinto si mise a ridere:
“Viene” assicurò “anche se ce ne fosse un metro. Viene con le 50.000 lire”.
Batté allegramente con la mano sul lato sinistro del petto, dove teneva la pistola: “Gli ho fatto vedere il mio biglietto da visita”.
“Gli hai amareggiato il Natale”, osservò il Comandante,
“è avaro come una formica”.
“La paura fa novanta” concluse “La Disperata”.»

Clinto è sicuro che i partigiani avranno presto a disposizione 50.000 lire. Anche se nessuno dei personaggi ne parla esplicitamente, quel denaro è probabilmente il frutto di un lavoro complesso e pericoloso: le forze della Resistenza bussano infatti alle porte dei benestanti e li convincono a sostenere economicamente la lotta di Liberazione. Diversi possidenti e imprenditori concedono contributi in denaro, anche per “cancellare la memoria” di precedenti appoggi allo squadrismo o al regime fascista.

Quando incassano i soldi, di solito, i partigiani rilasciano ricevute, che devono essere conservate in vista del rimborso postbellico. Chi le tiene nella propria casa ha ottime possibilità di essere trattato benevolmente dagli altri partigiani, ma al tempo stesso rischia grosso in caso di perquisizioni naziste e fasciste. Ogni aiuto alla Resistenza viene infatti interpretato come una forma di ribellione, punibile con l’uccisione e con la distruzione della casa.

Non sorprende, dunque, che si generino situazioni particolarmente delicate: quando un possidente nega il proprio aiuto alla Resistenza, alcuni gruppi partigiani possono scegliere di usare la forza persuasiva delle armi per convincerlo a contribuire o per prelevare direttamente le risorse. In altri casi, la fame e i pericoli della lotta armata spingono le formazioni dei “ribelli” a prendere il cibo ovunque esso si trovi, anche quando appartiene a persone tutt’altro che benestanti. Da questa necessità, imposta dalla vita in clandestinità, possono accendersi tensioni e contrasti tra i partigiani e alcune comunità civili. Conoscendo l’importanza del sostegno popolare, l’organizzazione della Resistenza si adopera a più riprese per controllare l’operato delle brigate e assicurarsi la benevolenza dei contadini.

«Erano pronti, tutti e tre. Il comandante si rivolse all’Agnese:
“Mamma Agnese, tu riposati e va’ a letto presto. Noi dopo andiamo alle “caserme”. Staremo là stanotte, e anche domani.
Sono tristi, le feste, per i ragazzi”.
Clinto aprì la porta: il vento portò dentro la neve. Erano le tre del pomeriggio, e pareva già sera.
“Buona notte e buon Natale, mamma Agnese”,
dissero, prima di uscire.»

Rimasta sola dopo la morte del marito Palita, deportato e lasciato morire dai soldati tedeschi, Agnese aveva continuato a vivere nella casa coniugale. Finché l’ennesima crudeltà non l’aveva portata a reagire e, da lì, a lasciare la propria casa per unirsi ai partigiani. Coraggiosa e infaticabile, era diventata la «mamma» dei “ribelli” e le era stato affidato il delicato compito di organizzare le staffette per sostenere la brigata.

Donna del suo tempo, persona umile e senza istruzione, nei mesi di partigianato Agnese matura nuove consapevolezze. Così quella che dapprima era stata una decisione istintiva e disperata, diventa poi una scelta responsabile, meditata, portata avanti con convinzione. Agnese condivide la scarsa consapevolezza politica della gran parte delle donne e dei giovani in quel momento storico, dopo vent’anni di dittatura fascista, ma l’esperienza della Resistenza, le relazioni intessute, i discorsi sentiti le permettono ora di vivere pienamente il suo tempo, combattendo da protagonista per la propria e altrui libertà, ma anche per la giustizia sociale.

«Sola, si sedette presso alla stufa a far la calza. La calza va per conto suo, non rovina i pensieri. E lei pensava a tante cose, muovendo le mani e i ferri senza guardarli. Pensava al Natale dell’anno scorso, sola come questa volta, ma a casa sua. La sera erano venuti i compagni, anche allora non si fece festa, da poco aveva saputo che Palita era morto. Le dissero le stesse parole: “Riposati. Va a letto presto. Avremo tanto da lavorare.” Era andata a letto presto, con la gatta nera che faceva le fusa, ron-ron, ron-ron, lunga distesa sotto la coltre, contenta che lei non la mandasse via.
E si sognò Palita: le disse che non pensasse al Natale. Dove stava lui, le feste non c’erano. Aggiunse: “Va’ avanti così che tutto andrà bene”. L’anno prima, invece, Palita c’era ancora. Ma l’Agnese non si ricordava niente di speciale. Tutti i Natali della sua vita si assomigliavano, erano quieti, bianchi, un po’ tristi: giorni lunghi passati senza lavorare. Faceva anche lei la sfoglia, i dolci: mangiavano in silenzio. Non avevano mai grandi cose da dire.»

Il Natale di guerra è difficile, ma per le persone umili come Agnese anche le feste degli anni “normali” sono giorni complicati. Quando si fermano le fatiche del lavoro, non ci sono molte possibilità di svago ed emergono le disuguaglianze che segnano la società. I piatti in tavola sono poveri e non c’è spazio per il dialogo, perché al di là degli stenti economici le donne e gli uomini condividono ben poco. Neppure Agnese, negli anni precedenti, era riuscita a parlare col marito Palita, perché non aveva strumenti per capire la sua militanza politica comunista. Era stata la guerra a trascinarla verso un cambiamento altrimenti impensabile: come altre donne, Agnese aveva scelto la lotta e si era avvicinata a quel mondo in cui Palita aveva vissuto fino alla deportazione.

«Adesso, invece, potrebbe parlare con Palita. Sapeva molto di più. Capiva quelle che allora chiamava “cose da uomini”, il partito, l’amore per il partito, e che ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere tutti gli oscuri perché, che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi quando muoiono. “Perché non posso avere una bambola?” “Perché le ragazze dei signori vanno a ballare con un vestito nuovo e io non posso andarci a causa del vestito vecchio?” “Perché il mio bambino porta le scarpe solo la domenica?” “Perché mio figlio va a morire in Africa e quello del Podestà resta a casa?” “Perché non potrò avere un funerale lungo, con i fiori e le candele?” Lei adesso lo sapeva, lo capiva. I ricchi vogliono essere sempre più ricchi e fare i poveri sempre più poveri, e ignoranti, e umiliati. I ricchi guadagnano nella guerra, e i poveri ci lasciano la pelle.»

Quando la guerra allarga ulteriormente le disuguaglianze, favorendo i ricchi e spremendo al massimo i poveri, si risveglia il bisogno di giustizia sociale, che accende la rabbia e stimola la voglia di cambiare le cose. Anche per questo, nel momento più difficile del Novecento italiano, diverse persone si mobilitano per porre fine alle violenze e mettere le basi di una società diversa.

«[…] Ed era tutta gente come Magòn, come Walter, come Tarzan, come il Comandante, gente istruita, che capisce e vuol bene a tutti, non chiede niente per sé e lavora per gli altri quando ne potrebbe fare a meno, e va verso la morte mentre potrebbe avere molto denaro e vivere in pace fino alla vecchiaia. E appena si arriva, dice: “Hai mangiato? Hai bisogno di qualche cosa?” E prima di andare via dice: “Buona notte e buon Natale, mamma Agnese.»

Renata Viganò, autrice di questo brano sul Natale 1944, tratto da L'Agnese va a morire

Renata Viganò, autrice del romanzo L’Agnese va a morire, da cui abbiamo tratto il brano citato.

Nel romanzo L’Agnese va a morire, pubblicato nel 1949, si leggono in controluce anche alcune esperienze vissute o raccolte da Renata Viganò, una donna che condivide col marito Antonio Meluschi la militanza nel Partito comunista e s’impegna attivamente nelle lotte, prima nella Resistenza e poi nella politica. Dalla trama, e dal modo in cui l’autrice racconta le vicende partigiane nelle valli di Comacchio, emergono diversi aspetti che caratterizzano l’approccio dei comunisti nella lotta di Liberazione e nella memoria di quel periodo. Non sorprende dunque che il romanzo venga accolto con polemiche dagli ambienti cattolici e conservatori, che nel clima della guerra fredda si contrappongono duramente alle posizioni delle Sinistre anche nella cultura.

Qui sotto una scena dal film del 1976, diretto da Giuliano Montaldo: Walter, sostenitore della Resistenza, parla con Agnese facendo alcune considerazioni sul comportamento di chi rifiuta la scelta partigiana ed è disposto a denunciare chi la compie.

Con questa storia del Natale 1944, un augurio di buone feste a tutte e a tutti, con un pensiero particolare a chi si trova più in difficoltà.

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