Il 24 marzo 1944 si consuma la strage delle Fosse Ardeatine. I militari dell’Außenkommando Rom (il Comando della polizia nazista nella Capitale) uccidono 335 persone, prelevate dalle carceri di via Tasso e Regina Coeli. Le forze occupanti mirano a terrorizzare la popolazione romana, rispondendo con estrema violenza all’azione partigiana del 23 marzo in via Rasella. Anche i fascisti hanno una responsabilità significativa nella strage delle Fosse Ardeatine. La Questura di Roma, guidata da Pietro Caruso, completa infatti l’elenco delle vittime con una lista di 50 nomi.

Nella strage delle Fosse Ardeatine muoiono anche due uomini originari della provincia di Modena: Armando Bussi e Luigi Gavioli. In questo post, dopo aver ricordato le vicende che portano al massacro, racconterò le loro storie personali.

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La strage delle Fosse Ardeatine e la memoria della Seconda guerra mondiale

La strage delle Fosse Ardeatine è uno degli eventi più noti, ricordati e discussi della Seconda guerra mondiale in Italia. Fin dall’immediato dopoguerra questo tragico episodio è stato inserito nella memoria della Repubblica, insieme al massacro di Monte Sole, come esempio della brutalità nazi-fascista. Tuttavia i fatti del 24 marzo 1944 non hanno sempre generato sentimenti unitari. I conflitti tra le forze politiche e le dinamiche della guerra fredda hanno consolidato memorie divise e contrapposte. Le polemiche hanno dunque inquinato molto spesso le narrazioni degli eventi.

Nonostante i più recenti lavori di ricostruzione storica – tra i quali spicca il saggio di Alessandro Portelli L’ordine è già stato eseguito – l’attacco partigiano di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine sono ancora raccontati molto spesso in maniera distorta. Prima di parlare delle vittime modenesi, è quindi utile ricordare in sintesi che cosa avvenne a Roma nei primi giorni della primavera del 1944.

Le tombe delle vittime della strage delle Fosse Ardeatine, all'interno del Mausoleo. Foto di Formkurve92 (CC-BY-SA 3.0) via Wikimedia Commons

Le tombe delle vittime della strage delle Fosse Ardeatine, all’interno del Mausoleo. Foto di Formkurve92 (CC-BY-SA 3.0) via Wikimedia Commons

I Gruppi di azione patriottica e la Resistenza romana

Nei primi mesi dell’occupazione nazista, i più risoluti tra gli antifascisti, in gran parte militanti del PCI, temono che la popolazione si rassegni alla presenza dei tedeschi e dei fascisti di Salò. Le reti clandestine si mettono dunque in moto per attaccare le forze occupanti. L’organizzazione del PCI crea i Gruppi di azione patriottica (GAP), piccoli nuclei di combattenti scelti e ideologicamente motivati, ai quali spetta il compito di innescare la lotta contro le forze armate tedesche.

I gappisti conducono una guerriglia urbana fatta di attacchi individuali, sabotaggi alle infrastrutture e attentati contro obiettivi sensibili della struttura militare nazista o contro i fascisti. Le loro azioni riaprono dunque uno dei dilemmi cruciali della Resistenza armata: è lecito uccidere i nemici con le modalità della guerriglia? I cattolici e molti socialisti sono fin da subito recalcitranti all’idea di portare la morte ad altri individui, anche se criminali. Molti di loro preferiscono attendere l’arrivo degli Alleati, compiendo al massimo alcune azioni di disturbo.

Tuttavia, nell’atmosfera della Seconda guerra mondiale è possibile rispettare le proprie leggi morali senza soccombere, mentre le forze armate dei fascismi scatenano la guerra ai civili? Per sciogliere questo interrogativo, autentico nodo gordiano della scelta partigiana, il PCI adotta la prospettiva ideologica della violenza rivoluzionaria, che legittima i mezzi adottati per raggiungerla. Anche a Roma, dove l’organizzazione gappista non è forte come a Milano e a Torino, alcuni giovani vogliono alzare l’intensità della lotta. All’inizio della primavera passano dunque all’azione, elaborando un attacco tanto importante quanto rischioso.

L’attacco di via Rasella

Il 23 marzo 1944 il GAP centrale di Roma organizza un attacco contro un battaglione di polizia delle SS, composto da militi originari dell’Alto Adige. I partigiani decidono di attaccare il reparto mentre marcia lungo via Rasella, convinti che la presenza di forze armate germaniche porti a inasprire la guerra nella Capitale e renda ancora più grave il pericolo dei bombardamenti aerei. Il GAP, composto da studenti del più prestigioso liceo romano, prepara un ordigno e lo nasconde in un carretto dell’immondizia, affidato a uno dei combattenti.

L’azione si svolge nel corso del pomeriggio. Le SS hanno un ritardo sulla consueta tabella di marcia e i piani sembrano saltati, ma quasi all’improvviso la colonna arriva in via Rasella. Mentre i militi avanzano lungo la strada, il gappista abbandona il carretto e confida nell’esplosione dell’ordigno. La bomba deflagra proprio quando le SS stanno passando. I morti sono 32, ma diventano 33 poche ore dopo, poiché uno dei feriti spira in ospedale. Perdono la vita anche quattro civili: due sono investiti dall’esplosione, mentre altri due vengono falciati dal fuoco di reazione dei nazisti.

La vendetta nazista

I nazisti rimangono colpiti dall’azione di via Rasella. In un primo momento Hitler invoca la distruzione dell’intero quartiere, ma il comandante dell’SD Herbert Kappler e altri ufficiali nazisti temono che una tale violenza genererebbe il caos. I tedeschi decidono dunque di vendicare l’attacco con un’azione molto dura ed esemplare, ma più contenuta rispetto alla proposta del Führer. Stabiliscono infatti di eliminare dieci ostaggi per ogni tedesco ucciso.

Nei mesi successivi quella proporzione si cristallizzerà nell’immaginario dell’opinione pubblica italiana, che la ricorderà come una “legge di guerra”. In realtà, nel corso dell’occupazione nazista, gli ufficiali germanici non fisseranno mai per norma un rapporto di dieci vittime italiane per ciascun tedesco ucciso. Nelle stragi avvenute in Italia si notano infatti proporzioni differenti a seconda dei casi e dei reparti coinvolti.

La strage delle Fosse Ardeatine

Tra la serata del 23 e il mattino del 24 marzo il Comando romano della polizia nazista passa all’esecuzione della vendetta. I nazisti preparano una lista di ostaggi, ma non ne hanno abbastanza. Iniziano dunque nuove azioni di rastrellamento e chiedono anche la collaborazione della Questura di Roma. I fascisti forniscono altri 50 uomini, portando il totale delle vittime a 335, cinque in più rispetto al rapporto di uno a dieci.

Persone radunate di fronte a Palazzo Barberini durante il rastrellamento successivo all'attacco di via Rasella. Bundesarchiv, Bild 101I-312-0983-07 / Koch / CC-BY-SA 3.0)

Persone radunate di fronte a Palazzo Barberini durante il rastrellamento successivo all’attacco di via Rasella.
Bundesarchiv, Bild 101I-312-0983-07 / Koch / CC-BY-SA 3.0)

Nel pomeriggio del 24 marzo i militari della polizia nazista cominciano a condurre gli ostaggi presso una cava di tufo lungo la via Ardeatina. Lì gli incaricati dell’esecuzione fanno scendere le vittime a gruppi di cinque, le fanno entrare nella grotta e le eliminano con un colpo alla nuca. Le operazioni proseguono fino alla tarda serata, quando il reparto fa saltare l’ingresso della cava con l’esplosivo, occultando così i cadaveri.

«L’ordine è già stato eseguito»

Il 25 marzo i nazisti annunciano di voler stroncare la Resistenza romana per vendicare l’attacco partigiano di via Rasella. L’agenzia Stefani trasmette il comunicato, che si conclude con parole criptiche e contraddittorie.

Il Comando tedesco […] ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti saranno fucilati. Questo ordine è già stato eseguito.

Quando la popolazione di Roma ascolta queste parole, le 335 vittime delle Fosse Ardeatine sono già morte da ore. Come suggerisce l’espressione conclusiva del comunicato, l’ordine della strage è già stato eseguito. Tuttavia l’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, rilancia subito l’idea che gli esecutori dell’attentato avrebbero potuto evitare la strage, se si fossero presentati al Comando tedesco come rei confessi. In realtà né i nazisti né i fascisti hanno mai rilasciato un appello di questo genere. Il massacro delle Fosse Ardeatine non è stato concepito per punire gli autori dell’attacco, ma deve avere un carattere esemplare. Gli esecutori vogliono dissuadere la popolazione dai propositi ribelli e dal sostegno alla Resistenza. Anche per questo le vittime del 24 marzo non sono solo i comunisti: nell’elenco dei morti si alternano “borghesi” e “proletari”, militari di carriera e “rivoluzionari professionali”, ebrei e cattolici.

Strage delle fosse ardeatine

Foto di Simone Ramella (CC BY 2.0)

Le vittime modenesi: Armando Bussi

Armando Bussi, figlio di Guglielmo e Giselda Varola, nasce a Modena il 17 dicembre 1896. La Prima guerra mondiale lo coglie negli anni della leva obbligatoria, destinandolo al fronte. Nei combattimenti perde l’occhio sinistro e viene catturato prigioniero dagli austriaci. Riesce comunque a fuggire dal campo di concentramento e nel novembre 1918, mentre l’Impero austro-ungarico si disgrega, partecipa ai moti rivoluzionari che animano la Boemia. Quando rientra in Italia, si trasferisce a Roma e lavora come impiegato delle Ferrovie dello Stato. È un convinto sostenitore del Partito repubblicano, quindi rifiuta il regime fascista, legittimato dalla monarchia sabauda.

Negli anni Trenta Armando si avvicina al movimento Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 entra nel Comitato militare del Partito d’Azione insieme al parmigiano Pilo Albertelli e si attiva per organizzare le prime formazioni partigiane del Lazio. Armando partecipa personalmente a tre importanti azioni di sabotaggio nella Capitale, ma il 2 marzo 1944 subisce gli effetti di una delazione e viene arrestato insieme ad Albertelli dalla Banda Koch. Entrambi sono condotti nella Pensione d’Oltremare e, dopo diverse torture, al carcere di Regina Coeli. Il 24 marzo sono inseriti nella lista delle vittime da eliminare come rappresaglia per l’azione partigiana di via Rasella e vengono fucilati alle Fosse Ardeatine. Armando Bussi ha ricevuto una Medaglia d’oro al valor militare alla memoria.

Luigi Gavioli

Luigi Gavioli, figlio di Geremia e Brigida Quarri, nasce a Mirandola il 17 febbraio 1902. Come tanti ragazzi della “Bassa” modenese, cresce in una famiglia molto povera. Così a 14 anni è costretto a trasferirsi nel mantovano per motivi di lavoro. Nel 1916 si stabilisce a Gonzaga, dove lavora come garzone in una pasticceria. Proprio in quel periodo si accorge che i braccianti vivono in miseria anche nel mantovano e si convince di dover lottare contro le ingiustizie della società. Si avvicina al movimento anarchico come sostenitore delle idee di Errico Malatesta e partecipa alle manifestazioni del Biennio Rosso, contrapponendosi duramente al potere degli agrari.

I fasci di combattimento cominciano a prendere di mira Luigi già nel 1921: gli squadristi lo aggrediscono con violenza a Reggiolo e cercano di incendiargli anche la casa. La marcia su Roma e l’ascesa del fascismo lo costringono al silenzio e alla clandestinità. Vive insieme alla compagna Virginia Benatti, che nel 1924 lo rende padre e nel 1928 dà alla luce il secondogenito. All’inizio degli anni Trenta si trasferisce prima a Verona e poi a Roma, ma cerca di mantenere vivi i contatti con Mirandola. Nel 1936 risulta proprietario di una latteria e di un caffè nella Capitale: tra i dipendenti dell’attività c’è suo fratello Nando, uno dei comunisti più attivi nella zona mirandolese.

L’occupazione nazista risveglia in Luigi la voglia di impegnarsi per la libertà. Tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno ospita nella sua casa diversi ebrei e prigionieri alleati in fuga dai campi fascisti, poi entra nell’organizzazione dei Gruppi d’azione patriottica romani, prendendo il comando di una formazione attiva nel quartiere Italia. Il 2 marzo 1944 le SS tedesche e italiane lo arrestano grazie a una delazione insieme alla moglie e a un figlio. Lo conducono nelle carceri di via Tasso, dove subisce diverse torture, prima del trasferimento al carcere di Regina Coeli. Il 24 marzo, due giorni dopo il suo arrivo nella struttura detentiva, i nazisti lo prelevano e lo conducono alle Fosse Ardeatine, dove lo fucilano.

Augusto Zironi: una “pista” sbagliata

Nella pubblicazione Dalla parte della libertà. I Caduti modenesi nel periodo della Resistenza entro e fuori i confini della Provincia. Forestieri e stranieri caduti in territorio modenese, Ilva Vaccari scrisse che anche un’altra vittima delle Fosse Ardeatine era nata in provincia di Modena. Si trattava di Augusto Zironi. Recenti ricerche, condotte da Mario Avagliano e Marco Palmieri in occasione della pubblicazione di un nuovo volume dedicato alla strage (prevista per marzo 2024), hanno tuttavia smentito tale ricostruzione, rivelando che Zironi era nativo di Genova. Il 29 gennaio 2024 il testo di questo post è stato aggiornato alla luce di tale scoperta.

Per saperne di più

Per approfondire la storia raccontata in questo post, ma anche per capire meglio le stragi naziste e fasciste in Italia, consigliamo la lettura di alcuni libri, disponibili per l’acquisto online:

  • Anche i partigiani, però…, di Chiara Colombini;
  • L’ordine è già stato eseguito, di Alessandro Portelli;
  • La liberazione di Roma: Alleati e Resistenza, di Gabriele Ranzato;
  • Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), a cura di Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino;
  • I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945), di Carlo Gentile;
  • Storia della Resistenza, di Mimmo Franzinelli e Marcello Flores.

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