“Si stava meglio quando si stava peggio!” Una volta, in una non meglio precisata epoca del passato, “quando si dormiva con la porta aperta“.
Quante volte lo hai sentito dire? Questa affermazione sottintende una critica all’epoca contemporanea, corrotta e degradata, ad esempio meno sicura di un tempo (ah, la sicurezza!). Nel pensiero occidentale si è guardato in tanti modi diversi allo scorrere del tempo: qualcuno ha sostenuto l’idea che i popoli andassero verso un inarrestabile progresso, altri, al contrario, hanno coltivato la nostalgia di un passato migliore, più felice, collocato ad esempio in un’età precedente lo sviluppo industriale o addirittura in un’età dell’oro, all’origine di tutto.

Queste due tendenze di pensiero, tra loro contrapposte, si sono alternate nel corso del tempo, nel senso che alcune epoche storiche hanno privilegiato l’una, altre l’altra. Ad esempio l’Illuminismo e il Positivismo scelsero la prima, il Romanticismo la seconda. Ma avere optato per l’una o per l’altra non significa che queste due tendenze non siano anche coesistite. Coesistevano un tempo come coesistono oggi…

Ti starai forse chiedendo se ce n’è una più corretta oppure come la pensiamo noi. Beh, gli storici non si pongono l’obiettivo di esprimere questo tipo di giudizi, ma di capire le continuità e le differenze tra le diverse epoche. Essere storici non significa avere nostalgia del passato o, al contrario, denigrarlo, ma voler comprendere il presente attraverso lo studio del passato.

Com’era quando si dormiva con la porta aperta?

Una cosa però possiamo dirla: quando si dormiva con la porta aperta, se davvero qualcuno lo faceva, non c’era più sicurezza di oggi. Si rubava un tempo come si ruba oggi. E molto spesso si rubava per miseria e per l’incapacità di trovare soluzioni diverse, più rispettose del prossimo, alla propria miseria. Si rubava anche se ci si conosceva tutti, si rubava anche se si finiva in prigione, si rubava anche se le pene erano più severe.

Ti eri fatto un’idea diversa? Ma un conto sono i luoghi comuni, un altro la realtà dei fatti.

Il carcere mandamentale di Sassuolo

Particolare di una cartolina del 1908 c.a. Sulla destra l’ingresso al carcere.

Sassuolo non è sempre stata ricca e neanche terra di immigrazione. Ma c’era chi rubava. Nell’inverno 2018-2019 l’associazione culturale “G.P. Biasin” ci ha commissionato una ricerca storica che aveva l’obiettivo di raccontare la storia del carcere mandamentale di Sassuolo, in funzione dal 1861 al 1968. Si trattava di riportare alla luce le vicende delle donne e degli uomini passati dal carcere in oltre un secolo, dai primi decenni dell’Italia unita, passando per la Grande Guerra, il fascismo, il secondo conflitto mondiale, fino alla ricostruzione del secondo dopoguerra e al boom economico degli anni Sessanta. Il mandamento, di cui Sassuolo era capoluogo, era esteso ai Comuni di Fiorano Modenese, Maranello, Prignano sulla Secchia, Montefiorino e Frassinoro, ricalcando quindi in parte l’attuale distretto ceramico.

Nel microcosmo rappresentato dalle prigioni sassolesi è possibile leggere la complessità del tema carcerario: dai rapporti con le istituzioni dello Stato alla gestione dell’edificio, dalle storie dei guardiani e delle guardiane ai tanti detenuti passati dietro le sbarre. Nei pochi metri quadrati racchiusi nelle mura del carcere si condensano le contraddizioni del sistema carcerario italiano, che a loro volta permettono di comprendere le strutture e le storture di una società che da sempre si regge su dinamiche di potere.

Manette appartenute all’ultimo custode, oggi di proprietà delle figlie Carla e Ombretta Bonettini, da noi intervistate nel corso della ricerca

Il libro Miseria e manette

Abbiamo raccontato il frutto dei nostri studi in una pubblicazione, che oggi offre a tutti la possibilità di conoscere gli aspetti sociali e umani della vicenda carceraria sassolese. Il libro Miseria e manette. Il carcere mandamentale di Sassuolo (1861-1968), di Paola Gemelli e Daniel Degli Esposti è stato pubblicato da Incontri editrice nella primavera 2019, con il contributo del Comune di Sassuolo, ed è disponibile e acquistabile anche online.

Quando ci è stato chiesto di occuparci della storia del carcere mandamentale di Sassuolo, di carceri non ne sapevamo moltissimo. Eravamo molto curiosi e non sapevamo bene cosa aspettarci. Non esistono nemmeno molti libri da leggere per farsi un’idea. Poi nei mesi leggendo la bibliografia disponibile e soprattutto cercando e studiando i documenti negli archivi (in particolare l’archivio storico del Comune di Sassuolo) siamo venuti a conoscenza di una realtà che oggi ci pone molti interrogativi, ad esempio sulla validità del carcere come risposta ad alcuni problemi della società. Le parole pronunciate da Filippo Turati il 18 marzo 1904 alla Camera dei deputati diventavano sempre più chiare via via che andavamo scoprendo le condizioni del carcere e dei detenuti.

Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma forse più atroce che si abbia mai avuto: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento di malfattori.

Le miserie dei detenuti

Chi erano coloro che finivano dietro le sbarre del carcere mandamentale sassolese? Persone comuni, quasi sempre lavoratori poveri, nati tra il Secchia e il torrente Fossa. Sassolesi e fioranesi, gente di montagna e talvolta di città, come un sacerdote modenese, finito “dentro” per furto nei primi anni dell’Italia unita. Già, anche i parroci e i cappellani talvolta cercavano di mettere le mani su ciò che non era loro… Dopotutto rubare era un’attività comune sia tra i “montanari”, sia tra i “pianigiani”. Tra la seconda metà dell’Ottocento e il boom economico del secondo dopoguerra diverse persone lo facevano per mangiare. Lavorare non bastava: la “forbice” tra i ricchi e i poveri era troppo ampia perché gli “ultimi” riuscissero a colmare il gap dell’ingiustizia soltanto con un’attività “onesta”.

Telemaco Signorini, L'alzaia, 1864. Nel dipinto si notano alcuni braccianti che trascinano una chiatta lungo l'argine dell'Arno, mentre un uomo e una bambina dell'alta borghesia restano girati dall'altra parte, completamente indifferenti - quando si dormiva con la porta aperta

Telemaco Signorini, L’alzaia, 1864. Nel dipinto si notano alcuni braccianti che trascinano una chiatta lungo l’argine dell’Arno, mentre un uomo e una bambina dell’alta borghesia restano girati dall’altra parte

Capitava tuttavia che venissero arrestati e rinchiusi in carcere in attesa di giudizio anche individui accusati di aver commesso crimini efferati. Risse, ferimenti volontari, omicidi tentati e riusciti non mancavano. A commetterli erano sempre persone nate e cresciute tra il Secchia e il Panaro. Dinanzi a loro, come accadeva a quasi tutti i ladri, si apriva la prospettiva di una pena molto dura. Le carceri erano infatti luoghi affollati e malsani, dove bisognava affrontare una vita di veri e propri stenti. Eppure tanti, una volta usciti, finivano per tornare “dentro” poco dopo, poiché non erano stati rieducati in nessun modo. Le carceri servivano, insomma, a “sorvegliare e punire”, come disse Michel Foucault. Ma, allora come oggi, castigare i colpevoli non significava affatto prevenire nuovi crimini.

La classe dirigente puniva chi rubava in maniera particolarmente dura. Fatti salvi i casi più estremi, il furto era infatti considerato un atto molto più grave rispetto alle lesioni personali: poteva infatti essere “aggravato” da una lunghissima serie di circostanze, portando il reo a scontare pene decisamente più lunghe rispetto a quelle dei violenti. Non bisogna inoltre dimenticare che le aggressioni sessuali e gli stupri, nelle pochissime volte in cui le donne trovavano la forza di denunciarli, erano considerati crimini “contro la morale” e non contro la persona. Venivano dunque puniti in maniera piuttosto lieve. Il motivo? Si trattava di reati “trasversali”, come le truffe, ovvero commessi anche dalle classi dirigenti e non soltanto dai più poveri, come accadeva per i furti. Chi se lo poteva permettere, riusciva spesso a evitare la galera pagando.

Le manette dei guardiani

Attraverso le sbarre del carcere è stato possibile guardare anche alla storia italiana, ritrovando nodi importanti per il nostro Novecento, come quelle relativi alle condizioni delle classi subalterne o la questione femminile. Nel libro abbiamo ad esempio ricostruito anche la storia dei custodi che si sono succeduti nel carcere di Sassuolo e che sono stati ben 10. Vengono tutti dalle classi più povere e le loro condizioni di vita finiscono per non essere così diverse da quelle dei detenuti. Per molto tempo inoltre si fa riferimento a un solo guardiano, che è sempre maschio. Andando però a guardare bene nei documenti, si scopre una realtà diversa. Fin dal 1865 si pone il problema della custodia delle donne e fin da allora la si affida alle mogli, il cui lavoro però è poco riconosciuto e mal pagato.

Come si vede da questi pochi esempi, il carcere sassolese ci parla di noi, della nostra società, dei nostri pregiudizi, delle nostre ingiustizie. Se può essere considerato per tanti versi un mondo a parte, con le sue logiche, va detto che riflette inevitabilmente le dinamiche della società che lo vuole e lo tiene in piedi così com’è nei decenni, evidentemente funzionali a logiche di potere che non si vuole cambiare.

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