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Pasqua di guerra: modenesi e profughi

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Nel 1918 la Pasqua cade il 31 marzo. A Modena non si respira la solita aria di primavera: la via crucis sembra quasi lo specchio di una città che si sforza per guardare avanti. È una Pasqua di guerra. La domenica tante donne s’inginocchiano devote con ancora addosso la stanchezza del lavoro al proiettificio. Chi sforna munizioni è sottoposta a disciplina militare: poche pause e ritmo alto, obbedire e sgobbare.

In realtà, anche se nei reparti non se ne accorge nessuno, le commesse dello Stato iniziano a calare. “Almeno là c’è il salario”, si dicono in molte, sperando forse che la patria non finisca i soldi. E comunque, ogni giorno, si dedicano stravolte anche a un altro lavoro, che non considerano neppure come tale: quello tra le mura domestiche.

Nell’affanno delle faccende il pensiero corre a quelli che prima portavano a casa la paga, e adesso sperano di riportarci la pelle. Ormai la guerra è quasi un’abitudine, ma a stare lontano dai propri cari non si fa mai il callo. Tutti i giorni gli occhi corrono alla posta: ogni annuncio di morte è insieme brivido e sollievo, se porta un nome sconosciuto.

Ma come si può andare avanti così, un giorno dopo l’altro, sperando che la tragedia bussi sempre a un’altra porta? I più pragmatici si chiedono perché debbano accettare la fame nel nome della patria. In effetti, a pochi mesi dal Natale e da San Geminiano, i cittadini vivono un’altra festa tirando la cinghia. Dagli spacci comunali si porta a casa solo quello che passa la tessera. Per tutto il resto c’è il mercato nero, sempre aperto, a rischio e pericolo di chi ha denaro da spendere.

La forbice tra ricchi e poveri è troppo larga perché qualcuno s’illuda di chiuderla: vietato rivolgere la rabbia in alto, meglio mirare a chi sta più in basso. Ai profughi di Caporetto, per esempio, che “mangiano il pane ai cittadini”. Sono tempi duri per i friulani e i veneti, fuggiti dalla guerra e aiutati a fasi alterne. Da undici giorni, almeno, hanno un assistente religioso: don Giuseppe Chiarelli, parroco di San Polo di Piave, celebra i riti per loro nella chiesa di San Vincenzo. Le messe dei profughi fanno sempre il pieno, perché la fede è una consolazione nelle difficoltà del presente. Ha ragione lo storico Marc Bloch: in quegli anni, e in quella Pasqua, “si crede facilmente a ciò cui si ha bisogno di credere”.

Qualcuno però non si accontenta di pregare: il professor Melchiorre Roberti lavora ogni giorno per rinforzare il Comitato Pro Profughi, che il 30 marzo diventa ufficialmente un Patronato. Presto la Sala del Fuoco, allestita in fretta e furia durante Caporetto per accogliere i primi gruppi in arrivo dal nord-est, si rivelerà troppo piccola per sbrigare le pratiche dell’assistenza. Nella seconda metà di maggio l’organizzazione si sposterà dal Municipio a Palazzo Cugini, lungo via Canalchiaro, per l’ultima estate della guerra italiana. Una stagione che vedrà decine di bambini nei castelli di Guiglia e di Sestola, trasformati in colonie per piccoli profughi. Anche i figli dei cittadini bisognosi verranno mandati in vacanza sull’Appennino: a Sestola condivideranno l’alloggio con gli amici del nord-est. I dirigenti e le maestre vedono nel loro stare insieme un bel modo per conoscersi, avvicinarsi e lottare contro la paura.

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