Sole nascosto e cielo di piombo. A Sassuolo la mattina di questo 4 novembre sembra fatta apposta per ricordare l’essenza della Prima guerra mondiale. Viene naturale chiamarla “Grande Guerra”, perché è il conflitto degli eccessi: troppo industriale per essere umana, ma troppo figlia dell’uomo per scivolare negli archivi. Sono passati cent’anni dalla svolta del 1917, eppure quei fatti non sono ancora acqua passata. Continuano a macinare, vibrano lungo le faglie dell’Occidente, pulsano nei problemi del nostro tempo. Più indago e più mi convinco che quella guerra ha sollevato un’onda di cambiamenti e violenze troppo grande per chi l’ha vissuta.

4 novembre. Truppe italiane a Gorizia, ridotta in macerie dai combattimenti che precedono la conquista italiana (9 agosto 1916, Sesta battaglia dell'Isonzo).

Truppe italiane a Gorizia, ridotta in macerie dai combattimenti che precedono la conquista italiana (9 agosto 1916, Sesta battaglia dell’Isonzo).

4 novembre: calendario civile e Public History

Quando il calendario civile chiama a raccolta la memoria, associazioni e amministrazioni comunali si rivolgono sempre più spesso alla storia. In Emilia ce n’è ancora più bisogno che altrove, perché il 4 novembre è una data delicata. Per anni la memoria delle trincee è stata sopraffatta dal mito della Resistenza. Negli studi sulla valle del Samoggia ho riscontrato che la Grande Guerra è rimasta per tanto tempo lontana dal senso comune. La distanza del fronte dalla via Emilia e il peso del lutto soffocavano una memoria rimasta per vent’anni ostaggio del fascismo.

Ancora oggi il 4 novembre – Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate – genera sentimenti contrastanti. Proprio per questo c’è bisogno di un approccio che vada oltre le (doverose) commemorazioni istituzionali. La dinamica dell’accadde oggi innesca spesso una curiosità che è indizio della domanda sociale di storia. Intercettarla e soddisfarla è il dovere della Public History, che riesce a trasformare il calendario civile da dovere istituzionale a risorsa per la cultura. D’altronde a che serve la storia, se non a capire il senso del tempo attraverso le vicende delle donne e degli uomini che lo hanno vissuto?

4 novembre Caporetto piazzale della Rosa

Un’altra prospettiva sulla Prima guerra mondiale

In Emilia-Romagna il miglior modo di avvicinarsi alla Prima guerra mondiale non è guardare alle trincee. Un conflitto totale non si fa sentire solo al fronte. Gli effetti della sua violenza si propagano nelle comunità. Raggiungono donne, anziani, bambini. Tolgono cibo e speranze, spingono al lavoro e alla scrittura. Cambiano la vita di ogni giorno.

Da qualche tempo, ormai, indago le vicende di chi ha vissuto la guerra senza impugnare le armi. Lavoratrici e figli di richiamati, profughi e cittadini privati: collaborazioni, tensioni, paure. Ogni vicenda mi desta un interesse nuovo, perché parla il linguaggio del quotidiano. Quello che penetra la coltre dell’indifferenza.

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Quando ho messo la lente d’ingrandimento su Sassuolo, la città che da un po’ chiamo casa, ho capito che certe storie andavano raccontate subito. Perché non proporre un’iniziativa pubblica per il calendario civile? Per trovare le prime sponde mi è bastato parlarne con Paola e con il presidente dell’Istituto Gramsci, Paolo Fantoni. La soluzione? Un percorso in sei tappe nel centro storico e il 4 novembre è “servito”. I luoghi non mancano, le storie si sprecano: arriva anche il patrocinio del Comune, dunque non resta che raccontarle!

4 novembre profughi sassuolo caporetto

Sassuolo sulla rotta di Caporetto

Il titolo è arrivato all’improvviso, come fanno i giochi di parole. Pochi eventi hanno cambiato il volto di Sassuolo come la disfatta di Caporetto. Quando la rotta apre la rotta dei militari e dei profughi, tutta l’Emilia diventa zona di guerra. Nel silenzio degli archivi le fonti sono eloquenti: riuscirò a restituire loro una voce nei luoghi che le hanno generate?

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Paolo Fantoni e Cristina Ravazzini “in azione” durante la camminata del 4 novembre.

 

Quando la storia si mette in cammino, il teatro l’accompagna a braccetto. Intrecciare racconti e letture espressive aiuta a passare dal grande al piccolo. Variare l’intensità dello zoom tra locale e globale è fondamentale per viaggiare nel tempo. Nelle ultime prove ho capito che le voci di Cristina Ravazzini e Paolo Fantoni sono perfette per riportare alla luce le parole della storia. Tocca a me calarle nel contesto giusto: dopotutto è il compito che amo di più.

Ai tre rintocchi del campanone… si parte!

Piazza Piccola è la cornice ideale per il primo viaggio. Non è facile andare col pensiero a un’epoca senza possibilità di trovare un boccone pronto a qualsiasi ora. Nel 1917 davanti allo spaccio comunale c’è la fila: il cibo basterà per tutti? Da quando la guerra ha tolto uomini ai campi e materie prime alle ceramiche, Sassuolo sembra sprofondata indietro nel tempo. Quanto durerà? Sembra una crisi continua, perenne, senza fine.

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Eppure qualcosa si muove ancora. Il Comitato di assistenza civile, per esempio. Senza l’impegno dei suoi membri come farebbero le famiglie dei richiamati, dei feriti, dei morti? Servono soldi, sempre di più: perché non puntare sul Politeama Sociale? Una compagnia organizza spettacoli e mette una parte degli incassi a disposizione del Comitato! Tutto fila liscio fino a Caporetto, quando qualcuno inizia a dire che non ci si può più svagare. Compostezza, disciplina, repressione. Col passare del tempo s’induriscono anche le parole.

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Profughi, cittadini e soldati

Per raccontare l’inizio del Novecento sassolese non c’è luogo più adatto di Viale XX Settembre. Nato nell’utopia del progresso, la Prima guerra mondiale lo occupa con piglio militare. Le scuole si aprono prima alle fanciulle dei “lavori donneschi” e poi ai bombardieri. Per i bambini non c’è più posto: bisogna organizzarsi diversamente. Anche perché arrivano i profughi veneti e friulani, che non possono restare senza scuola. I più grandi ricevono biglietti e abbonamenti per la ferrovia Modena-Sassuolo, i più piccoli vivono alla giornata.

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Come i loro genitori, quando ci sono. La vita del profugo non è certo una pacchia: la casa abbandonata o distrutta, il futuro incerto e il presente irto di spine. Nell’Italia del 1917 la lingua nazionale è patrimonio di pochi. La voce dell’anima parla in dialetto, e quelli del nord-est cozzano con le parole d’Emilia e di Romagna. Poi si accumulano le preoccupazioni: arriverà il sussidio dello Stato? Basterà per tutta la famiglia? Ci sarà un lavoro pagato abbastanza per vivere? Per quanto tempo potremo avere tutti qualcosa da mangiare?

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Più passano i mesi, più i punti di domanda diventano macigni. I soldati sono diffidenti: temono che tra i profughi si nascondano “austriacanti”, spie, traditori, nemici. Anche i cittadini preferirebbero avere meno “concorrenza” nelle liste per il cibo. Quando la fame morde, i sospetti alimentano la rabbia. E non c’è sentimento più potente nel tramonto del 1918.

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Una guerra che termina… senza finire

Rabbia. Ecco cosa provano gli italiani poco dopo il 4 novembre 1918. Tanti cittadini comuni hanno fatto sacrifici, lavorato e combattuto con la speranza di arrivare a stare meglio. Quasi tutti, però, si ritrovano a stare peggio, o a credere di non aver avuto abbastanza. E la rabbia divampa. Si alimenta di sogni rivoluzionari che guardano al Sol dell’Avvenire, ma anche di orgogli camerateschi e culti della violenza.

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Quando cozza con la forza di chi ha in pugno la società, questa energia si biforca. Un ramo impugna la bandiera rossa e lotta duramente per un mondo di uguali, un altro indossa la camicia nera e stringe il manganello per destare la “nazione guerriera”. L’obiettivo del fascismo, quando diventa regime, sta tutto in quella formula. “Nazione guerriera”. Per ritoccare in grande le carte geografiche e in alto i conti delle industrie pesanti. Per un “posto al sole” e un nuovo ordine europeo, quello della svastica e del littorio.

E per una nuova guerra mondiale. Ancora più grande. Ancora più dolorosa.

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