Questa mattina, di buon’ora, mi sono allacciato le scarpe per affrontare un’altra sfida di Public History: raccontare agli studenti di una classe terza media come la città e la sua gente hanno vissuto gli anni della Prima guerra mondiale. Dal momento che l’obiettivo didattico intrecciava il tempo della storia agli spazi della città, perché non proporre ai ragazzi un trekking urbano?

Con la narrazione itinerante, la ricostruzione storica prende corpo e acquista vitalità: il succedersi degli eventi e delle attività umane emerge attraverso gli strati del paesaggio, che si sovrappongono nella successione delle epoche come nello scavo di un sito archeologico.

L’esplorazione della città diventa un viaggio nella sua storia, durante il quale il racconto è immerso in una realtà aumentata di senso: le parole tratteggiano contesti di epoche distanti, ma la presenza sul luogo favorisce la proiezione retrospettiva nel tempo.

Fino a qui, quasi tutto bene: la solidità del metodo storico e le esperienze di didattica attraverso la Public History mi sostengono nell’adeguamento del trekking urbano alle esigenze scolastiche e nella preparazione del percorso. All’arrivo degli studenti, però, ecco una nuova sfida: le ragazze e i ragazzi vengono dall’Istituto Comprensivo Alberto Pio di Carpi, frequentano la terza media e somigliano a un mappamondo di culture. Emilia e Sud, Africa e Oriente, Balcani e Carpazi riempiono i loro orizzonti di nativi digitali: la società multietnica del Duemila mi appare condensata in una sola classe. Come posso raccontare loro una città che non conoscono e una storia ormai così lontana? Riuscirò a vincere le loro diffidenze? Supererò la barriera di un’attenzione legata ai ritmi di YouTube e alle immagini di Instagram?

La partenza mi racconta di un gruppo che sente il bisogno di vivere una giornata diversa: non tutti sono abituati a camminare e a guardarsi intorno, ma mi sembra che siano ben disposti all’idea di conoscere il percorso che li attende. La storia? In sé funziona poco: c’è bisogno di qualcosa che la colleghi al presente, ai luoghi che visitiamo, alla vita di tutti i giorni. Qui, come in tanti altri casi, viene in soccorso il prefisso “geo”: la geostoria e la geopolitica tendono trappole alla curiosità: gli spazi che ci circondano sono pieni di indizi, muti rivelatori di ciò che è stato, mentre il tempo scorre in una dimensione globale sempre più interconnessa.

Ogni volta che apro il racconto di un luogo o collego il passato al presente, questo gruppo di giovani cittadini del mondo spalanca gli occhi: non si guardano più intorno in attesa che io taccia, e già questo mi sembra un buon risultato, perché posso coinvolgerli nel racconto! Prima di tracciare le linee del divenire, li lascio al cospetto di una situazione aperta: non conoscono tutta la storia della Prima guerra mondiale a Modena e non sanno rispondere con certezza? Ancora meglio, perché vivono l’incertezza che attanaglia tutti i contemporanei di un evento così traumatico e sono costretti a interrogarsi sui collegamenti tra i fatti storici. Le mie domande innescano le loro: vogliono capire, non gli basta sapere. A dire il vero, neanche a me interessa che conoscano gli eventi come se fossero laureandi in storia contemporanea: il mio obiettivo è trasmettere il piacere di costruirsi una propria visione del mondo e delle cose pensando in modo “storico”, ovvero imparando a cogliere i nessi causali e temporali fra gli eventi.

Attività extracurricolari: trekking urbano sui luoghi della Grande Guerra a Modena

L’ex-ospedale Sant’Agostino, che durante la Prima guerra mondiale accolse anche diversi soldati feriti, in una città riempitasi di luoghi di cura.

Quando i racconti sui “profughi” risvegliano l’attenzione sulle faglie del mondo di ieri ancora aperte in quello di oggi, capisco che “la trappola ha funzionato”. Abbiamo vinto tutti: i ragazzi, che hanno letto nello spazio le testimonianze di un tempo non appiattito sull’eterno presente della globalizzazione digitale; i professori, che hanno trovato in un’attività dinamica all’aperto una sponda preziosa per i loro insegnamenti quotidiani. E anch’io, che ho imparato più cose di tutti.

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