Ogni anno, quando comincia ad affacciarsi la primavera e il Museo della Ceramica di Fiorano modenese annuncia la riapertura ordinaria, ripenso all’aprile del 2014 e all’inaugurazione della nuova sezione Manodopera. È un ricordo che ancora mi emoziona e, lasciatemelo dire, mi riempie di orgoglio.
Perché? Perché con Manodopera si voleva creare qualcosa che avesse una funzione pubblica, prima di tutto per la comunità locale. L’idea nasce nei primi anni 2000, con la crisi e la globalizzazione della ceramica dietro l’angolo. Credo che i momenti di svolta portino facilmente con sé anche un invito a un momento di riflessione: quando il futuro non è limpido, viene naturale guardarsi indietro, ricordarsi chi si è, raccogliere le energie, forti della propria esperienza e di tante prove superate, e da lì tornare al presente, capirlo e provare a ripartire. Manodopera serve anche a questo.

D’altra parte costruire una narrazione storica focalizzata sul mondo del lavoro ha voluto dire, nel distretto ceramico, raccontare le storie degli uomini e delle donne che “hanno fatto” la ceramica e, con questa, raccontare l’identità di un territorio, unico e differente, aperto alle relazioni con il resto del mondo. Perché non c’è famiglia, a Fiorano e nel distretto, che non abbia visto la propria storia segnata in qualche modo dalla realtà industriale locale. Nemmeno la mia: i miei genitori hanno avuto a vario titolo “a che fare”, io ho scelto una strada diversa e poi la ceramica è tornata nella mia vita “dalla finestra”. Ma torniamo alla storia attraverso la memoria collettiva, attraverso la storia orale.
Una storia mai idilliaca, fatta di luci e di successi, ma anche di ombre, tensioni, conflitti e contraddizioni. Una storia di fatiche, non priva di errori e cadute, di “cose comprese solo dopo”, ma anche una storia di conquiste e progressi frutto del faticoso lavoro di tanti, che a diversi livelli si sono impegnati per provare a migliorare il benessere di tutti.
Non si voleva raccontare l’epopea della ceramica tantomeno si voleva fare l’agiografia di questo o quell’imprenditore. Si voleva capire guardando la storia da tanti punti di vista, da quello basso in particolare, dal quale la “Storia” aveva così poco guardato, ma senza dimenticare i pionieri della ceramica e i loro eredi. “L’uomo nobilita il lavoro” recita non a caso il sottotitolo del progetto Manodopera.

Non si voleva fare una storia aziendale, né quella delle aziende sul territorio di Fiorano, ma si volevano raccontare le storie dei lavoratori delle aziende che compongono su diversi comuni del modenese e del reggiano quello che è stata chiamata “città distretto”.
Al centro la persona, non la piastrella. Eppure il “prodotto”, la piastrella di ceramica, nel museo c’è, eccome! Così come sono messi in mostra i piccoli e grandi oggetti, gli strumenti, i macchinari, i messaggi pubblicitari… Senza questa concretezza, come rendere comprensibile la realtà vissuta dalle persone? Abbiamo cercato di offrire un’esperienza anche sensoriale: uno spazio museale, per quanto innovativo e multimediale, offre anche questa possibilità, soprattutto quando documenti e oggetti (di fatto, per lo storico, documenti anche questi ultimi) non stanno chiusi in vetrina (ce ne sono solo 4 in tutto il museo), ma possono essere toccati e, in qualche caso, usati.

Ci sarebbe molto altro da dire su quello che è stato l’esito finale del progetto e su un allestimento multimediale che, sala dopo sala, postazione dopo postazione, si sforza di coinvolgere il visitatore… o il visit-attore come a volte si preferisce chiamarlo. Dovrei però scrivere un post lunghissimo per parlarvi delle relazioni tra la Public History e la comunicazione della storia da una parte e le tecnologie multimediali dall’altra… mentre voi avete avuto già tanta pazienza ad arrivare fino qui!

Allora fermiamoci nello spazio di passaggio tra la sala immersiva che ci racconta come si sia piastrellato “il mondo” e quella dove sono assoluti protagonisti i nostri testimoni. Negli occhi c’è ancora il turbinio delle immagini che scorrono sui muri, quando è un suono a catturare l’attenzione del visitatore: il drinn di un vecchio telefono a gettoni, come quelli che usavano una volta gli operai negli stabilimenti. Basta alzare la cornetta e rispondere all’invito del messaggio registrato per lasciare una prima testimonianza e le informazioni necessarie per essere ricontattati. In questo modo il museo stesso contribuisce a sollecitare la “produzione di fonti orali”.
Si voleva che questa sezione del Museo della Ceramica fosse partecipata e in continua evoluzione. Ecco perché Manodopera non avrebbe mai potuto nascere solo dagli archivi. La gran parte del lavoro di ricerca si è svolta invece tra la gente e l’allestimento finale è frutto di una lunga ricerca di storia orale. Anzi no, ho detto una bugia: la ricerca non è lunga, è “infinita”. Nel senso che non si è chiusa, come di conseguenza non si può considerare chiuso e finito il museo. E non è perché “non abbiamo fatto in tempo”. Si tratta invece di una scelta precisa: si voleva un museo in perenne evoluzione, aperto a nuovi contributi. La postazione con il telefono serve proprio a quello, ad aiutarci a raccoglierli. Tra la raccolta e la restituzione al pubblico di Manodopera si pone poi il lavoro dello storico, anzi del Public Historian, narratore di una memoria collettiva, condivisa e viva. Un lavoro impegnativo, ma non ho fatto tutto da sola, come potete leggere anche nella scheda dedicata.

Se a questo punto vi è venuta voglia di visitare Manodopera, potete controllare orari e modalità di apertura a questo link.

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